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Febbraio pazzerello

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Il febbraio pazzerello

ci ha portato il Carnevale

a caval d’un asinello

e con seguito regale:

Pantalone e Pulcinella

e Rosaura e Colombina

Balanzone con Brighella

e Pieretta piccolina.

A braccetto con Gioppino

che dimena un gran bastone,

van Gianduia e Meneghino

sempre pronti a far questione.

Arlecchin chiude la schiera

che, fra canti, balli e lazzi

lieta va da mane a sera

con gran coda di ragazzi.

Va, fra salti e piroette,

seminando per la via

tra un frastuono di trombette

di coriandoli una scia.

La trombettina azzurra

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C'era una volta un bambino che non aveva per carnevale

nemmeno una trombetta di cartapesta da suonare. 

La', tra la folla che schiamazzava, che rideva, 
c'era un bambino che in silenzio piangeva. 

Passo' un'arlecchino: gli regalo' il cappello, 
Pulcinella il bastone, 
Pantalone il mantello, 
e un'azzurra fatina la sua trombettina......... 

La', nella grande piazza una maschera sola c'era: 
suonava una trombettina azzurra sul far della sera.

Filastrocca della tarantella di Carnevale

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C'era una volta il signor Arlecchino
che a tutti quanti faceva l'inchino
e se nessuno gli offriva il caffé
lui si girava e faceva pee pee.

E Pulcinella, che è un gran imbroglione,
si divertiva a fare il burlone;
scherzava sempre e faceva arrabbiare
chi non voleva per niente giocare.

Ecco con noi il signor Balanzone
che da tutti quanti pretende attenzione,
e se nessuno vuole ascoltare
resti con noi e si metta a cantare.

Ma la più bella e anche carina
fra tutti quanti è Colombina,
si veste bene ed elegante,
usa un profumo troppo piccante.

Ma che cos'è, cosa non è,
è Carnevale
trallallero trallallà

Uno strano pagliaccio

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Nel circo c’è un pagliaccio, 

mangia fuoco, sputa ghiaccio, 

dice “corro”, non si muove, 

scrive cinque, pensa al nove. 

Ha piedini da lattante, 

porta scarpe da gigante. 

Ride, salta come un matto, 

non ha nulla dentro al piatto: 

vuol mangiare, lui lo sa, 

sol che il cibo non ce l’ha. 



Le maschere di carnevale tradizionali

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Arlecchino 

Bergamo
Nato nella Bergamo bassa, Arlecchino lo ritroviamo sempre nelle vesti del servo umile e del facchino. Le sue origini sono remote, da ricercare nelle leggende medioevali. Il suo costume famosissimo e tradizionale è composto da una maschera nera e fiammante e un vestito fatto di losanghe lucenti multicolori.
E' il fortunato emblema della comicità ed è un servo-facchino scaltro che cerca di spillare quattrini a padroni avari e stupidi. Ha una notevole ricchezza espressiva, è afflitto da una fame cronica ed è amorale.




Balanzone 

Bologna 
Il dottor Balanzone rappresenta il personaggio comico di un "dottore" soltanto di nome, a volte medico, a volte notaio. E' una maschera presuntuosa, superba, amante di sproloqui, lunghe "prediche" con citazioni in latino quasi sempre fuori posto: quando comincia a parlare è quasi impossibile interromperlo e quanto viene chiamato in causa sfoggia le sue dotte "cognizioni" di latino. Una delle caratteristiche del dottore è la sua obesità. 
Brighella 

Bergamo
E' la maschera di un servo astuto, ingegnoso, che sa aiutare ma anche ingannare il padrone. Non ha scrupoli e si adatta a qualsiasi lavoro: può essere oste, soldato, primo servitore o ladro patentato, è il servo furbo della commedia dell'arte. Questa maschera è nata nella Bergamo alta e si distingue dal servo sciocco e cialtrone della Bergamo bassa. La sua parlata è in dialetto bergamasco ma con singolari accentazioni che rendono spiritoso il suo modo di parlare. E' una maschera molto antica e il suo nome appare per la prima volta in un testamento burlesco nel 1603 e appare addirittura sulle scene francesi intorno alla metà del 1600. Il suo costume tradizionale si compone di una livrea bianca, completata da giubba e braghe a strisce verdi.
Il suo nome deriva da "briga" e infatti impersona il servo tuttofare intrigante. 

Colombina 

Venezia 
E' l'unica maschera femminile.  E' vivace, graziosa, bugiarda e parla veneziano. E' molto affezionata alla sua signora, altrettanto giovane e graziosa, e pur di renderla felice è disposta a combinare imbrogli su imbrogli. Colombina schiaffeggia senza misericordia chi osa importunarla mancandole di rispetto. Anche Colombina è una maschera molto antica, la sua figura era già menzionata nel 1530 nei testi degli Accademici Intronati di Siena. 
Gianduia 

Torino 
Si muove con eleganza, agitando il suo caratteristico codino rivolto all'insù. Ama lo scherzo ed i piaceri della vita. Gianduia ha finezza di cervello e lingua arguta che adopera per mettere in ridicolo i suoi avversari. Gianduia é un tipo pacifico e non cerca la rissa, né ama complicarsi la vita, ma non rinuncia al suo senso di schiettezza che fanno parte del suo carattere piemontese, gentile ma sincero. La sua generosità d'animo e l'innato senso di giustizia lo hanno sempre spinto dalla parte dei deboli e degli oppressi. 
E' in onore della maschera che prende il nome di Gianduiotto, il rinomato cioccolatino torinese di cioccolato e nocciole. La loro forma, a barchetta rovesciata, si rifà al copricapo di Gianduja. 

Meneghino 

Milano 
Impersona un servitore rozzo ma di buon senso che, desideroso di mantenere la sua libertà, non fugge quando deve schierarsi al fianco del suo popolo. E' abile nel deridere i difetti degli aristocratici. Meneghino é la tipica maschera dei milanesi e come loro è generoso, sbrigativo e non sa mai stare senza far nulla. 
Ama la buona tavola. Vestito di una lunga giacca marrone, calzoni corti e calze a righe rosse e bianche, cappello a forma di tricorno sopra una parrucca con un codino stretto da un nastro, ancora oggi, assieme alla moglie Checca, trionfa nei carnevali milanesi. 

Pantalone 

Venezia 
Pantalone è un vecchio mercante, spesso ricco e stimato anche dalla nobiltà, mentre altre volte è un vecchio mercante in rovina. E' un vecchio del tutto particolare perchè nonostante l'età è capace di fare le sue "avances" amorose che non si concludono mai in modo positivo. 
E' un uomo di grande vitalità negli affari, al punto di sacrificare la felicità dei figli e l'armonia familiare pur di combinare qualche matrimonio vantaggioso. 
Peppe Nappa 

Sicilia 
Peppe Nappa presenta più di un'affinità con il Pierrot francese, sia per il costume che indossa che per alcuni aspetti caratteriali. Beppe Nappa rappresenta un siciliano fannullone, intorpidito da un sonno perenne che lo costringe a sbadigliare continuamente. E' il pigro servitore di un padrone che può essere un commerciante, un innamorato, o un vecchio barone. In realtà non svolge il suo lavoro in modo efficiente, anzi passa dal sonno,alla ricerca di cibo,aiutato da un fiuto infallibile, per tornare poi al suo mondo di sogni. 
Pulcinella 

Napoli 
Pulcinella è un servitore sciocco e chiacchierone. Assume personalità contraddittorie: può essere infatti tonto o astuto, coraggioso o vigliacco. Pulcinella è la personificazione del dolce far niente. Ha una gestualità vivacissima, tipica dei napoletani. La maschera ha il volto bianco e nero e indossa un largo camice bianco. Il nome Pulcinella deriva probabilmente dal napoletano "pollicino", che significa pulcino, a sottolineare il timbro buffonesco come di un roco chiocciare. Pulcinella è dotato di una insaziabile voracità. Diceva che la frittata di maccheroni è molto buona ma che lui non la poteva mai mangiare perché la pasta non gli avanzava mai. E' estremamente impigliato nei più minuti problemi del cibo, sempre alle prese con l'ostinato problema della sopravvivenza, delle necessità elementari che aguzzano il suo ingegno e la sua fantasia, alla ricerca di espedienti per sfuggire alla sopraffazione dei potenti, all'ingordigia dei ricchi. E' goffo e sfrontato, ma è anche universale, comico e drammatico, come ben sapeva Eduardo De Filippo e anche tutti gli altri attori che hanno indossato casacca e maschera sul palcoscenico. 
Nel Settecento è stato trasformato in burattino e nel 1600 Pulcinella è stato "adottato" dagli inglesi con il nome di Punch. 

Rugantino 

Roma 
Rugantino è una maschera che impersona il popolano romano, sconclusionato e attaccabrighe. Rappresentò il tipo di popolano violento ma generoso, vero e proprio antenato del moderno bullo di periferia sempre pronto a sbeffeggiare il potere costituito e a difendere coloro che la miseria finisce col porre fuori legge. Il suo nome deriva dal verbo dialettale romanesco "rugà", che significa comportarsi con arroganza. 
Il costume tradizionale di Rugantino comprende un alto cappello da gendarme, il frac rosso, il panciotto, i calzoni rossi, ed è completato da calze bianche a strisce orizzontali. A parte le calze, tutti gli altri indumenti sono gli stessi che fanno parte della divisa dei soldati del Bargello romano, e qui prende l'ipotesi, quasi una certezza, che la maschera rappresenti la caricatura dei soldati. Il suo carattere è sostanzialmente quello di un attaccabrighe vanaglorioso, ma fondamentalmente è pavido, e non è privo anche di una certa bonomia, anche se è ben nascosta. Rugantino è fanfarone e contaballe e rischia spesso di pagare di persona. E' disposto a prenderne fino a restare tramortito pur di avere l'ultima parola.

STORIA DEL CARNEVALE

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Carnevale è un periodo difficile da interpretare, di certo è un periodo magico di baldoria, durante il quale ci si dimentica dei problemi che la vita di ogni giorno ci propone... E' un intervallo che nel calendario cristiano si colloca tra l'Epifania e la Quaresima. 
Riguardo al significato della parola l'ipotesi più attendibile ricollega carnevale al latino "carnem" levare", cioè, alla prescrizione ecclesiastica dell'astensione dal consumo della carne, paradossalmente quindi, trarrebbe il nome dal suo opposto già che il periodo di carnevale si caratterizza proprio dal godimento accentuato o addirittura sregolato dei beni materiali come cibi, bevande, piaceri sessuali, almeno nelle sue origini e radici storiche. Le origini sembrano collocarsi lontane nel tempo: gli studiosi all'unanimità, fanno risalire la nascita del carnevale ai Saturnali latini. In quei giorni i romani nel celebrare l'anniversario della costruzione del Tempio dedicato al dio Saturno, si riversavano nelle strade cantando ed osannando il padre degli Dei. Durante quei festeggiamenti veniva praticato il capovolgimento dei rapporti gerarchici ed in genere delle norme costituite della società, i plebei potevano confondersi con i nobili e viceversa grazie ad un travestimento. 

Più tardi venne introdotto l'uso delle maschere, preso in prestito dai Baccanali, festeggiamenti in onore di Bacco. Presumibilmente con lo scopo di non essere riconosciuti durante le pratiche licenziose festaiole, di cui i latini erano maestri. Il Cristianesimo fece ordine nel complicato panorama delle festività romane e cercò di moderare quelle più smodate e trasgressive. Fu così che i Saturnali divennero carnevale. Nel Medioevo, subì una trasformazione per effetto probabilmente della tradizione pietistica e della diffusa pratica mistica. La Manifestazione divenne fondamentalmente un rito di purificazione come è provato dalla scena culminante della festa che consiste nel funerale di Re carnevale. Questo senza però perdere il momento trasgressivo di abbandono ai piaceri materiali come viene rappresentato perfettamente dai versi di Lorenzo il Magnifico "chi vuol esser lieto sia di doman non v'è certezza...." tratti dai "CANTI CARNASCIALESCHI".Oggi dopo alterne vicende di gloria e decadenza, le manifestazioni carnevalesche hanno ripreso con forte vigore. Per un certo aspetto, ed in molti casi, esse sono il frutto di un sincero recupero di tradizioni popolari, da lungo tempo dimenticate, spesso volutamente dimenticate, come una operazione di rimozione da un senso di colpa collettivo per essere esse stesse fortemente paganeggianti e quindi quasi mai condivise dalla autorità religiosa. 

Il carnevale è una festa le cui origini sono antichissime. Ai nostri giorni è l'allegra festa che si celebra, nella tradizione cattolica, prima dell'inizio della quaresima ma le prime manifestazioni che ci ricordano il carnevale nel mondo risalgono a 4000 anni fa. Gli Egizi, fin dai tempi delle dinastie faraoniche, furono i primi ad ufficializzare una tradizione carnevalesca, con feste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside, che presiedeva alla fertilità dei campi e simboleggiava il perpetuo rinnovarsi della vita. 

Il carnevale greco veniva celebrato, invece, in varie riprese, tra l'inverno e la primavera, con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della vita. Le "Grandi dionisiache" dal tono particolarmente orgiastico, si tenevano tra il 15 marzo ed il 15 aprile, mese di Elafebolione, in Atene, e segnava il punto culminante del lungo periodo carnevalesco. 
I "Saturnali" furono, per i Romani, la prima espressione del carnevale e gradualmente, perdendo l'iniziale significato rituale, assunsero la chiara impostazione delle feste popolari, i cui relitti sopravvivono nelle tradizioni di varie zone della nostra penisola, soprattutto nell'Italia del Sud e nelle Isole. Le feste in onore di Saturno, dio dell'età dell'oro, iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano dapprima per tre giorni e poi per un periodo più che raddoppiato corrispondente all'epoca dell'annuale ciclo delle nostre feste natalizie e per il loro contenuto al nostro carnevale. Caratteristica preminente dei "Saturnali" era la sospensione delle leggi e delle norme che regolavano allora i rapporti umani e sociali. Donde l'erompere della gioia quasi vendicativa della plebe e degli schiavi e la condiscendenza del patriziato, che si concedevano un periodo di frenetiche vacanze di costumi e di lascività di ogni genere. Erano giorni di esplosione di rabbia e di frenesia incontrollata, di un'esuberanza festaiola che spesso degenerava in atti di intemperanza e di dissolutezza. 

La personificazione del carnevale in un essere umano o in un fantoccio, risale, invece, al Medioevo. Ne furono responsabili i popoli barbari che, calando nei paesi mediterranei, determinarono una sovrapposizione, o meglio una simbiosi, di usi e di costumi, assorbiti quindi dalla tradizione locale, che ne ha tramandati alcuni fino ai giorni nostri, mentre altri si sono fatalmente perduti durante il lungo e agitato andare del tempo. 

La chiesa cattolica e le autorità ecclesiastiche, pur tollerando le manifestazioni carnevalesche come motivo di svago e di spensieratezza, di cui la gente, credente o non, teneva in debito conto, considerava e considera il carnevale come momento essenziale di riflessione e di riconciliazione con Dio. Si celebravano, come tuttora avviene, le Sante Quarantore, (o carnevale sacro), che si concludevano con qualche ora di anticipo la sera dell'ultima domenica di carnevale. Il carnevale ha termine il giorno del mercoledì delle Ceneri, ovvero 40 giorni prima di Pasqua, quando, per la chiesa cattolica ha inizio la Quaresima. 
Carnevale ambrosiano 

Dove si osserva il rito ambrosiano, ovvero nella maggior parte delle chiese dell'arcidiocesi di Milano e in alcune delle diocesi vicine, la Quaresima inizia con la prima domenica di Quaresima; l'ultimo giorno di carnevale è il sabato, 4 giorni dopo rispetto al martedì in cui termina dove si osserva il rito romano. 
La tradizione vuole che il vescovo sant'Ambrogio fosse impegnato in un pellegrinaggio e avesse annunciato il proprio ritorno per carnevale, per celebrare i primi riti della Quaresima in città. La popolazione di Milano lo aspettò prolungando il carnevale sino al suo arrivo, posticipando il rito delle Ceneri che nell'arcidiocesi milanese si svolge la prima domenica di Quaresima. 
In realtà la differenza è dovuta al fatto che anticamente la Quaresima iniziava dappertutto di domenica, i giorni dal mercoledì delle Ceneri alla domenica successiva furono introdotti nel rito romano per portare a quaranta i giorni di digiuno effettivo, tenendo conto che le domeniche non erano mai stati giorni di digiuno.Questo carnevale, presente con diverse tradizioni anche in altre parti dell'Italia, prende il nome di carnevalone. 

La rappresentazione del carnevale 

Il "Processo del Carnevale"è tra i festeggiamenti carnevaleschi più diffusi, infatti lo ritroviamo in molte regioni italiane e sopravvive anche nella tradizione popolare odierna. Dopo il testamento del Carnevale, al quale si addossano tutti i mali del vecchio ciclo annuale, di solito si usa metterlo a morte. L'uccisione può avvenire per per impiccagione o decapitazione ed è il momento culminante del dramma e dei festeggiamenti, ma la forma più usuale è quella del fuoco, ovvero la messa al rogo del fantoccio di Carnevale che troviamo in tantissime località. 
Carnevali famosi in Italia

In Italia, un paese di grande tradizione carnevalesca, ci sono molte manifestazioni che richiamano folle di turisti e di appassionati, ma nei secoli passati il Carnevale più spettacolare si festeggiava nella capitale. 

Il Carnevale romano era incoraggiato dagli stessi Papi, che avevano ereditato dai pagani la saggezza di convogliare in una forma pacifica gli umori di rivolta e le manifestazioni di malcontento dei loro sudditi-fedeli. I festeggiamenti del Carnevale di Roma culminavano nella cosiddetta "corsa dei bárberi", e cioè dei cavalli berberi, che aveva tanto colpito Goethe da ispirargli una magistrale descrizione nel suo "Viaggio in Italia". 

Esistono diversi tipi di manifestazioni di Carnevale che hanno raggiunto una certa notorietà anche al di fuori del confine regionale e nazionale, in genere per qualche caratteristica che lo contraddistingue, tipo il Carnevale di Ivrea con la famosa e originalissima battaglia delle arance. 

Insomma oggi le cose sono molto cambiate e il Carnevale si è legato spesso con tradizioni locali, ma conservando il carattere principale della festa un po' folle, in cui grazie ad una maschera sul volto si può fare più o meno tutto, trasgredendo alle normali regole che vigono durante il resto dell'anno. 

Il Carnevale di Venezia

A Venezia il Carnevale è una delle feste tradizionali più belle, ed è considerato uno dei modelli europei di Carnevale cittadino, era celebre e rinomato in tutta Europa già nel Settecento. 
Ci sono gli spettacoli di strada, le famose feste in costume e le belle maschere veneziane perfettamente anonime. Questo, un tempo, offriva una libertà di movimento di cui hanno goduto per secoli amanti e anche ladri, durante il periodo di sfrenatezze, per unirsi alle follie del Carnevale veneziano. 
Caduto in disuso per un certo periodo, il Carnevale veneziano è stato riscoperto negli anni ottanta, con un notevole richiamo turistico e grande partecipazione e allegria degli stessi Veneziani. 
Al culmine delle manifestazioni una grande folla di persone riempie la grande piazza di fronte alla Basilica di San Marco e la piazzetta di fronte alla Giudecca. 

Il Carnevale di Viareggio

Il Carnevale di Viareggio è un appuntamento tradizionale che si tramanda da molto tempo e che ben presto uscì dai confini della Versilia. E' nato ufficialmente nel febbraio del 1873, pare intorno ai tavolini di un conosciuto caffè cittadino, il "Caffè del Casinò", dove tra i giovani bene di Viareggio nacque l'idea di una sfilata di carrozze in modo da festeggiare il Carnevale all'aperto, in piazza e tra la gente. 
Durante la prima guerra mondiale il Carnevale di Viareggio subì un arresto, ma nel 1921 rifiorì divenendo ancora più splendido e grandioso. 
La cartapesta, per realizzare i carri maestosi e molto leggeri, venne introdotta qualche tempo dopo, nel 1925, per iniziativa e merito di alcuni costruttori locali. 

Burlamacco e Ondina
Nel lontano 1930, un pittore di nome Uberto Bonetti realizzò dei manifesti ufficiali immortalando e dipingendo tutta la magia del Carnevale di Viareggio e creando anche una maschera chiamata "Burlamacco". L'anno dopo, nel 1931, Burlamacco ritatto sullo sfondo dei moli viareggini protesi verso il mare, era già in compagnia di "Ondina". 

I carri a tema
Ogni anno il Carnevale di Viareggio sceglie un tema espresso con i carri allegorici. I carri sono monumentali, per lo più sormontati da enormi pupazzi di cartapesta che rappresentano uomini politici illustri, personaggi dello sport e dello spettacolo, o eventi della politica e temi sociali di tutto il mondo. Sono i veri protagonisti del Carnevale e infatti questa festa si distingue dalle altre per il suo carattere polemico che ispira tutti i carri, con l'invito per tutti alla riflessione. 
Viste le dimensioni e la quantità di lavoro necessario per i preparativi del Carnevale viareggino, qualche anno fa è stata creata la "Cittadella del Carnevale", un grande complesso polifunzionale adibito a moderni laboratori per la costruzioni dei carri di cartapesta, che ospita anche la Scuola di Cartapesta. 

Il Carnevale di Acireale

Acireale è un prezioso gioiello barocco della Sicilia Orientale, in provincia di Catania, che si colora di festa per il Carnevale più famoso del Sud Itala. Con l'ironia dei carri allegorici e di quelli infiorati e con il ricco banchetto che precede il Martedì Grasso. La sfilata dei carri unisce nobiltà, religione e cultura in un tripudio di maschere.  Il Carnevale di Acireale è gemellato con quello di Viareggio ed è inserito nella omonima lotteria nazionale. Le testimonianze del passato di partecipazione popolare al più famoso Carnevale siciliano sono moltissime, come ad esempio il bando della "Corte Criminale di Jaci", che nel Seicento vietava la battaglia tra i "carusi", con i lanci di agrumi, come si fa in modo simile al Carnevale di Ivrea, in Piemonte. 
La satira e la derisione dei potenti assunse le forme di "Abbatazzu", una maschera irridente a nobili ed ecclesiastici, ma autorizzato dalla Chiesa. In seguito i "baruni" di Jaci diventarono il bersaglio del feroce e ironico sarcasmo popolare espresso con sfavillanti maschere e con i "Manti", ovvero costumi ricchi di fronzoli che garantivano il perfetto anonimato di chi li indossava. 
La sfilata delle carrozze dei nobili, chiamata "Cassariata", era l'occasione per lanciare alla folla confetti multicolori e alla fine dell'Ottocento questa usanza lo fa diventare il Carnevale più bello della Sicilia, dove nascono i primi carri allegorici di cartapesta. 
Da allora Acireale ha saputo mantenere e valorizzare questa tradizione, grazie a maestranze che per tutto l'anno lavorano per preparare opere di pregevole spettacolarità. I carri sono multicolori e infiorati e assumono varie forme e dimensioni, ci sono infatti quelli in miniatura, con soggetti dedicati ai bambini e i caratteristici carri allegorici, sempre più sofisticati, colorati e mastodontici. Anno dopo anno la gara è una sfida tra decine di famiglie acesi, che danno anima e corpo a favole dolci e romantiche, a satire pungenti contro un costume, un personaggio, una moda oppure anche un modo di dire. Si esprime in un'estetica armonica e sfavillante il giudizio popolare sui protagonisti della vita nazionale, che diventano fantocci da irridere e da screditare scherzosamente nel tripudio di migliaia di partecipanti. 
L'arte di cartapesta trasforma lo scenario della Basilica di San Sebastiano, della piazza del Duomo e della Basilica dei Santi Pietro e Paolo, in una scenografia magica, che sovrasta il reale e il quotidiano. I carri infiorati sono decorati con oltre quarantamila garofani e sono una emozionante vista per gli spettatori che giungono ad Acireale da tutta la Sicilia ma anche da molte località fuori regione. Durante l'ultimo fine settimana che precede il Martedì Grasso gli spettatori culminano in una folla di quattrocento mila persone. Intorno alla festa carnevalesca è tutto un fiorire di giochi, spettacoli di piazza, mostre, concorsi e serate danzanti, fino al gran finale del Carnevale, rappresentato dal Martedì Grasso e dal tradizionale rogo del Re del Carnevale. 

Il Carnevale di Rio de Janeiro

Il Carnevale più famoso del mondo è rappresentato senza dubbio quello di Rio de Janeiro, una grande città del Brasile sud orientale, fra le maggiori del continente americano e del mondo. Il Carnevale di Rio è una della manifestazioni popolari più famose e variopinte del pianeta, che nella città di Rio de Janeiro ha l'espressione più clamorosa. Si tratta di un vero e proprio rituale di liberazione per la popolazione di colore, costretta a trascorrere un'esistenza spesso assai misera, e sono molte le persone impegnate tutto l'anno per mettere a punto i suoi preparativi. 
Le danze del Carnevale, come il "samba" e il "frevo", riprendono i ritmi delle musiche dei "candombles" e di altri riti. Il samba è uno stile musicale e anche una danza di origine afro-brasiliana, il nome deriva probabilmente dal "semba" angolano, mentre il ritmo discende dal "maxise" che si è diffuso alla fine dell'Ottocento, con influenze della musica portoghese e spagnola. Questo tipo di ritmo ha dato vita ad una tradizione folcloristica unica, nata dal sottoproletariato di Rio de Janeiro, è il simbolo musicale nazionale, identificata sia come musica per canto che per percussioni. La forma più nota di samba è il samba carioca, lo stile che domina il Carnevale di Rio. Le animate sfilate, i carri colorati, le attraenti ballerine delle scuole di samba e i percussionisti, fanno confluire in questo periodo dell'anno numerosissimi turisti da ogni parte del mondo. 



Fonte:
medioevo.com  
wikipedia.org 
carnevalemaschere.com 

Poesie D'Amore di Charles Baudelaire

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TI ADORO
T'adoro al pari della volta notturna,
o vaso di tristezza, o grande taciturna!

E tanto più t'amo quanto più mi fuggi,
o bella, e sembri, ornamento delle mie notti,
ironicamente accumulare la distanza
che separa le mie braccia dalle azzurrità infinite.

Mi porto all'attacco, m'arrampico all'assalto
come fa una fila di vermi presso un cadavere e amo,
fiera implacabile e cruda, sino la freddezza
che ti fa più bella ai miei occhi.

PROFUMO ESOTICO
Quando, a occhi chiusi, una calda sera d'autunno,
respiro il profumo del tuo seno ardente,
vedo scorrere rive felici che abbagliano
i fuochi di un sole monotono;
una pigra isola in cui la natura
esprime alberi bizzarri e frutti saporosi,
uomini dal corpo snello e vigoroso
e donne che meravigliano per la franchezza degli occhi.

Guidato dal tuo profumo verso climi che incantano,
vedo un porto pieno d'alberi e di vele
ancora affaticati dall'onda marina,
mentre il profumo dei verdi tamarindi
che circola nell'aria e mi gonfia le narici,
si mescola nella mia anima al canto dei marinai.

I CAPELLI

O bella chioma che ti increspi in onde

fino sul collo, o boccoli, o profumo

acuto e denso d'abbandono, èstasi!

Per popolare stasera l'alcova

oscura di ricordi addormentati

in questa massa di capelli, come

un fazzoletto s'agita nell'aria,

scuoterò la tua chioma. Vive in te,

nel profondo, aromatica foresta,

l'Asia languida e l'Africa cocente,

tutto un mondo lontano, assente, quasi

defunto. Se altri spiriti veleggiano

sulla musica, il mio sul tuo profumo,

o dolce amore, naviga. Laggiù




dove le piante e gli uomini, di linfa

pieni, a lungo gioiscono all'ardore

dei climi, andrò: voi, trecce, siate l'onda

che mi rapisce! Tu contieni, o mare

d'ebano, un sogno abbagliante di vele,

di rematori, di bandiere e antenne:

un porto risonante dove l'anima

a larghi sorsi può bere il profumo,

il suono ed il colore; ove vascelli,

nell'oro e nel marezzo scivolando,

spalancano le loro vaste braccia

per stringere la gloria d'un ciel puro

nel quale freme l'eterno calore.

Io tufferò, d'ebbrezza innamorato,

in questo oceano nero ove si annida

l'altro oceano il mio capo. Ritrovarvi

saprà il sottile spirito sfiorato

dalla carezza del rullio, o feconda

accidia ed infiniti ondeggiamenti

d'ozi odorosi! Dell'immenso e curvo

cielo l'azzurro mi ridate, o chiome

turchine, voi di tenebre distese

padiglione; sugli orli vellutati

dei tuoi ricci ritorti, con ardore

m'inebrio degli odori insieme fusi

d'olio di cocco, di catrame e muschio.

A lungo, sempre, nel tuo folto crine

seminerà la mia mano il rubino

la perla e lo zaffiro, perché sorda

tu mai sia, se ti chiama il desiderio.

Non sei tu la borraccia da cui bevo

a sorsi lunghi il vino del ricordo?


IL SERPENTE CHE DANZA


O quant’amo vedere, cara indolente,

delle tue membra belle,

come tremula stella rilucente,

luccicare la pelle!



Sulla capigliatura tua profonda

dall’acri essenze asprine,

odorosa marea vagabonda

di onde turchine,

come un bastimento che si desta

al vento antelucano

l’anima mia al salpare s’appresta

per un cielo lontano.

I tuoi occhi in cui nulla si rivela

di dolce né d’amaro

son due freddi gioielli, una miscela

d’oro e di duro acciaro.

Quando cammini cadenzatamente

bella nell’espansione,

si direbbe, al vederti, che un serpente

danzi in cima a un bastone.

Poesie D'Amore di Umberto Saba

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PAOLINA

Paolina, dolce 
Paolina,
raggio di sole entrato nella mia
vita improvviso;
chi sei, che appena ti conosco e tremo
se mi sei presso? tu a cui ieri ancora
"Il suo nome – chiedevo – signorina?";
e tu alzando su me gli occhi di sogno
rispondevi: " Paolina".

Paolina, frutto natio,
fatta di cose le più aeree e insieme
le più terrene,
nata ove solo nascere potevi,
nella città benedetta ove nacqui,
su cui vagano a sera i bei colori,
i più divini colori, e ahimè! Sono
nulla; acquei vapori.

Paolina, dolce
Paolina,
che tieni in cuore? Io non lo chiedo. E’ pura
la tua bellezza;
vi farebbe un pensiero quel che un alito
sullo specchio, che subito s’appanna.

Qual sei mi piaci, aureolata testina,
una qualunque fanciulla e una Dea
che si chiama Paolina.
AMAI 

Amai trite parole che non uno
osava. M'incantò la rima fiore
amore,
la più antica difficile del mondo.

Amai la verità che giace al fondo,
quasi un sogno obliato, che il dolore
riscopre amica. Con paura il cuore
le si accosta, che più non l'abbandona.

Amo te che mi ascolti e la mia buona
carta lasciata al fine del mio gioco.


DONNA

Quand'eri
giovinetta pungevi
come una mora di macchia. Anche il piede
t'era un'arma, o selvaggia.

Eri difficile a prendere.

Ancora
giovane, ancora
sei bella. I segni
degli anni, quelli del dolore, legano
l'anime nostre, una ne fanno. E dietro
i capelli nerissimi che avvolgo
alle mie dita, più non temo il piccolo
bianco puntuto orecchio demoniaco.


MIA MOGLIE

Quando triste rincaso e lei m’aspetta
alla finestra, se la bella e cara
moglie, ad un gesto, il mio male sospetta,
se il disgusto mi legge, od altro, in faccia,
tosto al mio collo le amorose braccia,
come due serpi vigorose, getta;
me solo accusa la sua voce amara.

"E così dice è così che mi torni.

Non un bacio per me, non un sorriso
per tua figlia; stai lì, muto, in disparte;
si direbbe, a vederti, che tu hai l’arte
di distruggerti. Ed io... guardami in viso,
guarda, se alle parole mie non credi,
questi solchi che v’ha lasciato il pianto.

Ero qui sola ad aspettarti; intanto
la nostra casa io l’ho rimessa, vedi?
come nel primo giorno.

Ma tu già non m’ascolti. Che passione,
e che rabbia mi fai!

Non s’ha il diritto, sai,
quando si vive con altre persone,
di tenere per sé le proprie pene;
bisogna raccontarle, farne parte
ai nostri cari che vivono in noi
e di noi".

"Quanto, quanto m’annoi",
io le rispondo fra me stesso. E penso:
Come farà il mio angelo a capire
che non v’ha cosa al mondo che partire
con essa io non vorrei, tranne quest’una,
questa muta tristezza; e che i miei mali
sono miei, sono all’anima mia sola;
non li cedo per moglie e per figliola,
non ne faccio ai miei cari parti uguali.

La leggenda del Bucaneve

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Narra la leggenda che tanti e tanti anni fa, al ritorno dall'ennesimo viaggio sulla terra, il giovane principe Bucaneve udì una fanciulla cantare e, di quel canto, si innamorò perdutamente.

Arrivato nel Paese dell'Inverno, chiese a Re Gelo, suo padre, il permesso di sposarla ma questi, brontolando cupi presagi, rispose che il loro amore non aveva speranza perché la fanciulla era la principessa Primavera e abitava la regione dei venti e dei fiori mentre lui, Bucaneve, era il principe delle nebbie e del gelo...

“Scordati, figlio mio, questa pazzia!” tuonò cupamente Re Gelo.

Passò, così, un altro inverno lungo e silenzioso, ma il cuore di Bucaneve, abitato dalle brume del mattino, non riusciva proprio a dimenticare così, alle prime avvisaglie della nuova stagione, il giovane principe decise di attardare un po' il suo ritorno.

Lungo il sentiero ancora impreziosito da luminosi cristalli di ghiaccio, attese l'arrivo di Primavera... e lei arrivò, leggera, accompagnata da un canto gioioso.

Bucaneve, nascosto tra i cespugli, riconobbe l’Amore.

Il capo inghirlandato da piccoli fiori, la sottile veste di aliti di vento, i ridenti occhi di azzurro marzolino... la bella principessa incantò per sempre il giovane principe.

Da lontano, il richiamo di Re Gelo giunse cupo, come brontolio di tuono, per ricordargli che doveva affrettarsi a rientrare nel Paese dell'Inverno... ma Bucaneve non lo ascoltò e continuò a perdersi negli occhi di Primavera che, a piccoli passi, si avvicinava danzando.

Giunta accanto al cespuglio, un brivido increspò le braccia nude. Poi, incerta, guardò intorno e... finalmente lo vide.

Avvolto nel mantello di candida neve, la corona scintillante di brina, fiera sul capo, la spada di ghiaccio, splendete al fianco e due meravigliosi occhi cerulei e inquieti come la tormenta... il giovane rapì per sempre il cuore della principessa.

Intorno, come richiamato da un evento magico e misterioso, tutto tacque e il mondo si incantò negli occhi dei due innamorati.

Per non ferire a morte il Signore dell'Inverno, il sole nascose i suoi raggi dietro le nuvole e il gelido vento, che seguiva sempre Bucaneve, per non assiderare Primavera, andò a fare mulinelli più lontano.

Allora il principe avvolse nel soffice mantello la fanciulla e si tennero stretti a lungo, giurandosi eterno amore.

Quando il sole fece nuovamente capolino tra le nuvole, Bucaneve baciò Primavera e "Non temere" le disse "perché alla fine di ogni inverno tarderò di un giorno il mio ritorno nel Paese del Gelo e quando arriverai io sarò qui ad aspettarti". Poi, rapito per sempre dal vento di tormenta che lo nascose, svanì tra le nebbie...

E lei, rimasta sola, chinò il capo e pianse. Ma quando una lacrima toccò il terreno, tra le impronte di neve lasciate dall'amato spuntò un piccolo fiore bianco, dai petali delicati, che Primavera raccolse e strinse al petto, nuovamente felice...

... E da allora, ogni fine inverno, nei campi scintillanti di brina sboccia un piccolo fiore, che qualcuno ancora chiama Bucaneve per ricordare la promessa fatta dal giovane principe dell'Inverno alla bella principessa Primavera.

Poesie D'Amore 1 (di Autori Vari)

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Dove sarà la Guglielmina?
Pablo Neruda

Fiamma Quando mia sorella l'invitò
e andai ad aprirle la porta
entrò il sole, entrarono stelle,
entrarono due trecce di grano
e due occhi interminabili.

Io avevo quattordici anni
ed ero orgogliosamente oscuro
magrolino, snello e aggrottato
funereo e cerimonioso:
io vivevo con i ragni,
inumidito dal bosco,
conosciuto dai coleotteri
e dalle api tricolori,
io dormivo con le pernici
sprofondato sotto la menta.

Allora entrò la Guglielmina
con due bagliori azzurri
che mi trafissero i capelli
e m'inchiodarono come spade
contro i muri dell'inverno.

Tutto questo avvenne a Temuco.
Laggiù nel Sud, alla frontiera.
Sono trascorsi lenti gli anni.
Il mio cuore ha camminato
con intrasferibili scarpe,
e ho digerito le spine:
non ebbi tregua dove rimasi:
dove colpii mi colpirono
e poi e poi e poi e poi,
com'è lungo narrare le cose.

Non ho più nulla da aggiungere.
Venni a vivere in questo mondo.
Dove sarà la Guglielmina?



Mi prometti, vita mia, che questo nostro amore
Catullo, traduzione di S. Quasimodo

Mi prometti, vita mia, che questo nostro amore
sarà eterno e felice. O grandi dei,
fate che sia vero ciò che promette
e che lo dica dal profondo del cuore;
potremo così mantenere per tutta la vita
questo sacro giuramento d’amore senza fine.



L’amore...
Saffo


L’amore mi sconvolse
l’anima
come il vento dal monte
si getta sulle querce.

Innamorato
Johann Wolfgang Goethe

Vorrei essere un pesce,
così vispo e guizzante;
venissi tu a pescare,
io mi lascerei prendere.
Vorrei essere un pesce,
così vispo e guizzante.
Oh se fossi un cavallo,
ti sarei caro allora!
Oppure una vettura,
per portarti a tuo agio.
Oh se fossi un cavallo,
ti sarei caro allora!
Vorrei essere oro,
e sempre al tuo servizio;
se tu facessi spese,
io tornerei correndo.
Vorrei essere oro,
e sempre al tuo servizio.
Vorrei esser fedele,
la mia bella sempre diversa;
a lei vorrei promettermi,
né vorrei mai andarmene.
Vorrei esser fedele,
e lei sempre mutare.
Vorrei essere vecchio,
tutto rugoso e freddo;
se tu mi rifiutassi,
non potrei certo affliggermi.
Vorrei essere vecchio,
tutto rugoso e freddo.
Se io fossi una scimmia
pronta agli scherzi buffi,
e tu fossi imbronciata,
ti farei delle burle.
Se io fossi una scimmia
pronta agli scherzi buffi.
Fossi mite come una pecora,
ardito come un leone,
avessi l’occhio di lince
e un’astuzia di volpe.
Fossi mite come una pecora,
ardito come un leone.
Tutto quello che io fossi,
te lo concederei;
con i beni di un principe,
tutto ti apparterrei!
Tutto quello che io fossi,
te lo concederei!
Ma sono come sono,
e accettami così!
Se ne vuoi di migliori,
fatteli su misura.
Io sono come sono;
così dovrai accettarmi!



Qui regna amore
Giosuè Carducci

Ove sei? de' sereni occhi ridenti
A chi tempri il bel raggio, o donna mia?
E l'intima del cor tuo melodia
A chi armonizzi ne' soavi accenti?

Siedi tra l'erbe e i fiori e a' freschi venti
Dài la dolce e pensosa alma in balía?
O le membra concesso hai de la pia
Onda a gli amplessi di vigor frementi?

Oh, dovunque tu sei, voluttuosa
Se l'aura o l'onda con mormorio lento
Ti sfiora il viso o a' bianchi omeri posa,

È l'amor mio che in ogni sentimento
Vive e ti cerca in ogni bella cosa
E ti cinge d'eterno abbracciamento.



Il cielo in me
Antonia Pozzi

Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
Tu
eri il cielo in me,
che non parlavi
mai del mio volto, ma solo
quand'io parlavo di Dio
mi toccavi la fronte
con lievi dita e dicevi:
- Sei più bella così, quando pensi
le cose buone -
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi per la mia persona
ma per quel seme
di bene
che dormiva in me.
E se l'angoscia delle cose a un lungo
pianto mi costringeva,
tu con forti dita
mi asciugavi le lacrime e dicevi:
- Come potrai domani esser la mamma
del nostro bimbo, se ora piangi così? -
Tu
eri il cielo in me,
che non mi amavi
per la mia vita
ma per l'altra vita
che poteva destarsi
in me.
Tu
eri il cielo in me
il gran sole che muta
in foglie trasparenti le zolle
e chi volle colpirti
vide uscirsi di mano
uccelli
anzi che pietre
- uccelli -
e le lor piume scrivevano nel cielo
vivo il tuo nome
come nei miracoli
antichi.
Io non devo scordare
che il cielo
fu in me.
E quando per le strade - avanti
che sia sera -
m'aggiro
ancora voglio
essere una finestra che cammina,
aperta, col suo lembo
di azzurro che la colma.
Ancora voglio
che s'oda a stormo battere il mio cuore
in alto
come un nido di campane.
E che le cose oscure della terra
non abbiano potere
altro - su me,
che quello di martelli lievi
a scandere
sulla nudità cerula dell'anima
solo
il tuo nome.



È vero
Federico García Lorca


Ah, che fatica mi costa
amarti come ti amo!

Per il tuo amore mi duole l'aria,
il cuore
e il cappello.

Chi mi comprerà
questo cordone che ho
e questa tristezza di filo
bianco, per far fazzoletti?

Ah, che fatica mi costa
amarti come ti amo!




L' ho sì gran paura di fallare
Cecco Angiolieri

verso la dolce gentil donna mia,
ch'i' non l'ardisco la gioia domandare
che 'l mi' coraggio cotanto disìa;

ma 'l cor mi dice pur d'assicurare,
per che 'n lei sento tanta cortesia,
ch'eo non potre' quel dicere né fare,
ch'i' adirasse la sua segnoria.

Ma se la mia ventura mi consente
ch'ella mi degni di farmi quel dono,
sovr'ogn'amante viverò gaudente.

Or va', sonetto, e chiedile perdono
s'io dico cosa che le sia spiacente:
ché, s'io non l'ho, già mai lieto non sono.

Orfeo ed Euridice

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Un giorno il Dio Apollo donò ad Orfeo una lira e le muse gli insegnarono ad usarla.
Acquistò una tale padronanza dello strumento che aggiunse anche altre due corde portando a nove il loro numero per avere una melodia più soave.

Come prima grande impresa Orfeo partecipò alla spedizioni degli Argonauti e quando la nave Argo giunse in prossimità dell'isola delle Sirene, fu grazie ad Orfeo e alla sua cetra che gli argonauti riuscirono a non cedere alle insidie nascoste nel canto delle sirene.

Ogni creature amava Orfeo ed era incantata dalla sua musica e dalla sua poesia ma Orfeo aveva occhi solo per una donna: Euridice, figlia di Nereo e di Doride che divenne sua sposa.

Il destino però non aveva previsto per loro un amore duraturo infatti un giorno la bellezza di Euridice fece ardere il cuore di Aristeo che si innamorò di lei e cercò di sedurla.

La fanciulla per sfuggire alle sue insistenze si mise a correre ma ebbe la sfortuna di calpestare un serpente nascosto nell'erba che la morsicò, provocandone la morte istantanea.

Orfeo, impazzito dal dolore e non riuscendo a concepire la propria vita senza la sua sposa decise di scendere nell'Ade per cercare di strapparla dal regno dei morti.

Convinse con la sua musica Caronte a traghettarlo sull'altra riva dello Stige; il cane Cerbero ed i giudici dei morti a farlo passare e nonostante fosse circondato da anime dannate che tentavano in tutti i modi di ghermirlo, riuscì a giungere alla presenza di Ade e Persefone.


Una volta giunto al loro cospetto, Orfeo iniziò a suonare e a cantare la sua disperazione e solitudine e le sue melodie erano così piene di dolore e di disperazione che gli stessi signori degli inferi si commossero.

Fu così che fu concesso ad Orfeo di ricondurre Euridice nel regno dei vivi a condizione che durante il viaggio verso la terra la precedesse e non si voltasse a guardarla fino a quando non fossero giunti alla luce del sole.

Orfeo, presa così per mano la sua sposa iniziò il suo cammino verso la luce.

Durante il viaggio, un sospetto cominciò a farsi strada nella sua mente pensando di condurre per mano un'ombra e non Euridice.

Dimenticando così la promessa fatta si voltò a guardarla ma nello stesso istante in cui i suoi occhi si posarono sul suo volto Euridice svanì, ed Orfeo assistette impotente alla sua morte per la seconda volta.


Invano Orfeo per sette giorni cercò di convincere Caronte a condurlo nuovamente alla presenza del signore degli inferi ma questi per tutta risposta lo ricacciò alla luce della vita.

Si rifugiò allora Orfeo sul monte Rodope, in Tracia trascorrendo il tempo in solitudine e nella disperazione. Rifiutava le donne e riceveva solo ragazzi e adolescenti maschi che istruiva all'astinenza e sull'origine del mondo e degli dei.
Quale che fosse il modo come Orfeo morì è certo che ogni essere del creato pianse la sua morte, le ninfe indossarono una veste nera in segno di lutto ed i fiumi si ingrossarono per il troppo pianto.

Le Muse recuperarono le membra di Orfeo e le seppellirono ai piedi del monte Olimpo ed ancor oggi, in quel luogo, il canto degli usignoli è il più soave che in qualunque parte della terra.

... Fu recuperata anche la sua lira che fu portata a Lesbo nel tempio di Apollo che però decise di porla nel cielo in modo che tutti potessero vederla a ricordo del fascino della poesia e delle melodie dello sfortunato Orfeo, alle quali anche la natura si arrendeva, creando la costellazione della Lira.

La storia di Amore e Psiche

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La storia inizia con un re e una regina che avevano tre belle figlie, le due maggiori erano andate in spose a due principi di altri regni mentre la più piccola di nome Psiche era bellissima, di una bellezza così rara e sorprendente che nessun uomo si sentiva all’altezza di corteggiarla.
Psiche era aggraziata e brillava come una stella tanto era bella, molti pensavano fosse l’incarnazione di Venere, dea della bellezza, così tutti la adoravano come se fosse una dea e addirittura le rendevano omaggio trascurando gli altari della vera dea Venere.

Venere era gelosa e invidiosa della bellezza di questa semplice mortale e offesa decise di vendicarsi di Psiche, decise perciò di chiedere aiuto al suo figlio prediletto Amore, meglio conosciuto da tutti come Cupido.
La vendetta ordita da Venere consisteva nel far innamorare Psiche (tramite le infallibili frecce d’amore del figlio) dell’uomo più brutto e sfortunato della terra affinché vivessero insieme una vita povera e triste, e lei fosse così coperta di vergogna a causa di questa relazione.

Ma il piano di Venere  fallì perché suo figlio Amore appena vide Psiche rimase letteralmente incantato della sua bellezza e rapito da quella meravigliosa visione. Preso alla sprovvista da questa visione celestiale fece erroneamente cadere la freccia preparata per Psiche sul suo stesso piede, iniziando così ad amarla perdutamente.

Amore non poteva stare lontano dalla sua amata mortale e così con l’aiuto di Zefiro che la trasportò in volo su un letto di fiori profumati, la bella Psiche fu portata nel meraviglioso palazzo di Amore.
Ogni notte Amore andava dalla sua amata senza mai farsi vedere in volto, e i due vivevano momenti di travolgente passione che mai nessun mortale aveva conosciuto.
I loro incontri avvenivano di notte perché Amore voleva nascondersi ed evitare le ire della madre Venere, così aveva detto alla sua amata che lui era il suo sposo ma che lei non doveva chiedere chi fosse e doveva accontentarsi solo del suo amore senza mai vederlo. Psiche aveva accettato il compromesso ammaliata dalle carezze e dalla passione di Amore e così, giorno per giorno aspettava con ansia che facesse sera per incontrare il suo amato.

Un giorno le sorelle di Psiche la istigarono a scoprire il volto del suo amante così Psiche la notte stessa decisa finalmente di vedere per la prima volta il viso dell’uomo che le travolgeva i sensi. Prese una lampada a olio e una spada, per paura che fosse un orribile mostro pronto a farle del male, era disposta a tutto pur di conoscere finalmente Amore.
Quando Amore la raggiunse, Psiche avvicinò la lampada al suo viso e restò folgorata dalla bellezza eterea di quel bellissimo uomo dalle gote rosee e dai riccioli biondi che aveva un paio di meravigliose ali dolcemente ripiegate sulle sue spalle. Incantata e ancor più innamorata Psiche mentre stava per baciarlo fece accidentalmente cadere una goccia d’olio della lampada su Amore, costui dopo aver capito quello che era successo, si allontanò da lei e scomparve lasciando Psiche nello sconforto più totale.

Appena Venere seppe dell’accaduto s’infuriò e scatenò la sua ira sulla povera Psiche, per punirla la sottopose a diverse e difficili prove che lei superò brillantemente. Sempre più infuriata Venere pose Psiche di fronte alla prova più difficile: la ragazza avrebbe dovuto discendere negli inferi e chiedere alla dea Proserpina un pò della sua bellezza. Psiche scese negli inferi come ordinato da Venere e ricevette un’ampolla dalla dea Proserpina.
Durante la via del ritorno nel mondo reale, Pscihe fu incuriosita dal contenuto dell’ampolla donatale da Proserpina e con sua grande sorpresa scoprì che la bottiglietta non conteneva bellezza bensì il sonno più profondo. La nuvola che uscì dall’ampolla fece cadere addormentare profondamente Psiche che venne risvegliata dal suo adorato Amore .
Infine Giove, il padre degli dei, mosso da compassione per le vicissitudini della ragazza fece in modo che i due amanti potessero stare insieme.
Psiche ad Amore si sposarono e dalla loro unione nacque un figlio di nome Piacere.

La leggenda di Amore e Psiche ha un significato allegorico: Amore (che sarebbe Cupido, o secondo la mitologia greca Eros) è identificato come il signore dell’amore e del desiderio, e Psiche sarebbe raffigura l’anima: Amore unendosi misticamente a Psiche le dona l’immortalità. Dall’unione dell’anima e dell’amore nasce il piacere.

Teseo e Arianna

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Vuole così la leggenda che il Minotauro venisse rinchiuso nel labirinto e che ogni anno sette giovani e sette fanciulle ateniesi (che erano stati vinti dal re di Creta) venissero sacrificati al Minotauro per saziare la sua fame di carne umana.

Per due volte fu ripetuto il sacrificio fino a quando, alla terza spedizione, giunse a Creta Teseo, figlio di Etra ed Egeo, sovrano di Atene, che si finse parte del gruppo dei sacrificandi perchè voleva porre fine a quelle morti. L'impresa era molto difficile non solo perchè doveva uccidere il Minotauro, ma perchè una volta entrato nel labirinto, era impossibile uscirne. Il giovane chiese allora aiuto ad Arianna figlia di Minosse e sorellastra del Minotauro, alla quale dichiarò il suo amore e questa a sua volta, innamoratasi perdutamente di Teseo, si consigliò conDedalo che gli suggerì di legare all'ingresso del labirinto un filo che sarebbe stato dipanato mano mano che si procedeva. In questo modo sulla via del ritorno, riavvolgendolo, si sarebbe trovata l'uscita. 

Quando fu il turno di Teseo di essere sacrificato al Minotauro questi srotolò il filo lungo la strada e quando giunse al cospetto del mostro lo uccise e riavvolgendo il filo, riuscì ad uscire dal labirinto.
Finì così l'orrendo sacrificio che era stato imposto da Minosse agli ateniesi e contemporaneamente Teseo ed Arianna fuggivano insieme da Creta ed approdarono all'odierna Nasso (allora Dia). 

La mattina quando Arianna si svegliò si accorse però che Teseo l'aveva abbandonata.
Arianna cercò disperatamente il suo amato e pianse lacrime amare quando si rese conto di essere sola. Visto il pianto straziante della fanciulla che urlava di dolore, arrivò in suo soccorso Dioniso che la sposò e gli donò una bellissima corona d'oro, tempestata di rubini, forgiata da Efesto che venne alla sua morte mutata in costellazione: la costellazione di Arianna

Teseo, dopo l'abbandono di Arianna fece ritorno in patria ad Atene dove, dopo breve tempo, divenne re al posto del padre e governò con saggezza ed il suo popolo conobbe un lungo periodo di pace e prosperità.

Poesie D'Amore 2 (di Autori Vari)

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Laura Spinelli
CONFESSIONE D'AMORE
Forse dovresti essere l'unico a cui non dovrei dirlo.
Forse ne riderai con gli amici.
Certo mi farai soffrire.
Ma io ti voglio bene,
e non riesco più nemmeno a dormire.
Voglio percorrere con te un po' di strada,
quale che sia.
Sceglierò, per te e per me, sentieri del cuore
che passi leggeri
hanno sfiorato
in giorni incantati.
Parlerò e tacerò.
E poi? Questo voglio soltanto:
starti accanto.



W.SHAKESPEARE
SONETTO 130 

“Gli occhi della mia donna non sono come il sole”

Gli occhi della mia donna non sono come il sole;il corallo è assai più rosso
del rosso delle sue labbra;se la neve è bianca, allora i suoi seni sono grigi;
se i capelli sono crini, neri crini crescono sul suo capo.
Ho visto rose variegate, rosse e bianche, ma tali rose non le vedo sulle sue guance;
e in certi profumi cè maggiro delizia che nel fiato che la mia donna esala.
Amo sentirla parlare, eppure so che la musica ha un suono molto più gradito.
Ammetto di non aver mai visto camminare una dea,
ma la mia donna camminando calca la terra.
Eppure, per il cielo. ritengo che la mia amata si straordinaria
come ogni altra donna falsamente cantata con immagini esagerate


Camillo Sbarbaro
ORA CHE SEI VENUTA
Ora che sei venuta,
che con passo di danza sei entrata
nella mia vita
quasi folata in una stanza chiusa -
a festeggiarti, bene tanto atteso,
le parole mi mancano e la voce
e tacerti vicino già mi basta.


Il pigolìo così che assorda il bosco
al nascere dell'alba, ammutolisce,
quando sull'orizzonte balza il sole.


Ma te la mia inquietudine cercava
quando ragazzo
nella notte d'estate mi facevo
alla finestra come soffocato: che non sapevo, m'affannava il cuore.
E tutte tue son le parole
che, come l 'acqua all'orlo che trabocca,
alla bocca venivano da sole,
l'ore deserte, quando s'avanzavan
puerilmente le mie labbra d'uomo
da sè, per desiderio di baciare...


Wilslawa Zymborska
(Da La fine e l'inizio)

UN AMORE FELICE

Un amore felice. È normale?
è serio? è utile?
Che se ne fa il mondo di due esseri
che non vedono il mondo?

Innalzati l’uno verso l’altro senza alcun merito,
i primi venuti fra un milione, ma convinti
che doveva andare così – in premio di che? di nulla;
la luce giunge da nessun luogo –
perché proprio su questi, e non su altri?
Ciò offende la giustizia? Sì.
Ciò infrange i principi accumulati con cura?
Butta giù la morale dal piedistallo? Sì, infrange e butta giù.

Guardate i due felici:
se almeno dissimulassero un po’,
si fingessero depressi, confortando così gli amici!
Sentite come ridono – è un insulto.
In che lingua parlano – comprensibile all’apparenza.
E tutte quelle loro cerimonie, smancerie,
quei bizzarri doveri reciproci che s’inventano -
sembra un complotto alle spalle dell’umanità!

È difficile immaginare dove si finirebbe

se il loro esempio fosse imitabile:
Su cosa potrebbero contare religioni, poesie,
di che ci si ricorderebbe, a che si rinuncerebbe,
chi vorrebbe restare più nel cerchio?

Un amore felice. Ma è necessario?
Il tatto e la ragione impongono di tacerne
come d’uno scandalo nelle alte sfere della Vita.
Magnifici pargoli nascono senza il suo aiuto.
Mai e poi mai riuscirebbe a popolare la terra,
capita, in fondo, di rado.

Chi non conosce l’amore felice
dica pure che in nessun luogo esiste l’amore felice.
Con tale fede gli sarà più lieve vivere e morire.

AMORE A PRIMA VISTA

Sono entrambi convinti
che un sentimento improvviso li unì.
E' bella una tale certezza
ma l'incertezza è più bella.
Non conoscendosi prima, credono
che non sia mai successo nulla fra loro.
Ma che ne pensano le strade, le scale, i corridoi
dove da tempo potevano incrociarsi?
Vorrei chiedere loro
se non ricordano -
una volta un faccia a faccia
forse in una porta girevole?
uno "scusi" nella ressa?
un "ha sbagliato numero" nella cornetta?
- ma conosco la risposta.
No, non ricordano.
Li stupirebbe molto sapere
che già da parecchio
il caso stava giocando con loro.
Non ancora del tutto pronto
a mutarsi per loro in destino,
li avvicinava, li allontanava,
gli tagliava la strada
e soffocando un risolino
si scansava con un salto.
Vi furono segni, segnali,
che importa se indecifrabili.
Forse tre anni fa
o il martedì scorso
una fogliolina volò via
da una spalla all'altra?

Qualcosa fu perduto e qualcosa raccolto.
Chissà, era forse la palla
tra i cespugli dell'infanzia?
Vi furono maniglie e campanelli
in cui anzitempo
un tocco si posava sopra un tocco.
Valigie accostate nel deposito bagagli.
Una notte, forse, lo stesso sogno,
subito confuso al risveglio.
Ogni inizio infatti
è solo un seguito
e il libro degli eventi
è sempre aperto a metà.

Il pomo della discordia e il giudizio di Paride

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Doveva essere un giorno felice. Si celebravano le nozze di una dea del mare, Teti, con un uomo bellissimo, Peleo, e tutti gli dei erano venuti a festeggiare gli sposi portando loro una grande quantità di doni. La sala del banchetto splendeva di mille luci e sulla grande tavola brillavano le caraffe e le coppe preziose, colme di nettare e ambrosia; dei e dee chiacchieravano gaiamente. Volevano starsene tutti in pace e contenti; perciò al banchetto non era stata invitata Eris, l’imbronciata dea della discordia. Se compariva lei scoppiavano litigi furiosi e più nessuno aveva voglia di ridere e scherzare.

Ma quella guastafeste riuscì ugualmente a rovinare ogni cosa. Nel bel mezzo del pranzo arrivò di corsa e fece rotolare sulla tavola una mela d’oro. Poi, ridendo malignamente, scappò via.

Tutti – dei e dee – cercarono di afferrare la mela preziosa, se la strappavano di mano l’un l’altro, gridavano, litigavano. 
– Attenzione! – gridò a un certo punto qualcuno – Sul pomo c’è una scritta.
– Cosa?
– Dove?
– Fate vedere.
– Avanti, qualcuno legga cosa c’è scritto.
– C’è scritto: “Alla più bella”.

Allora Era, Atena e Afrodite si buttarono sulla mela d’oro.
– A me, a me – gridavano dandosi gomitate e spintoni.
– Spetta a me la mela d’oro. Sono io la più bella! – strillavano furiose pestandosi i piedi.
– Sia Zeus, il padre di noi tutti, a decidere chi tra voi tre meriti il pomo d’oro – proposero gli altri dei.

Ma Zeus, sentendo aria di grane a non finire, declinò l’incarico di giudice con un discorsetto che fu un capolavoro di diplomazia:
– Non voglio essere io arbitro tra voi, perché voglio bene a tutte e tre e, se fosse possibile, vorrei vedervi tutte e tre vincitrici. Ma il pomo è uno solo, perciò una sola può ricevere il premio di bellezza. Io però non me la sento di giudicare, perché per me siete tutte e tre ugualmente belle. È meglio allora che Ermes vada sul monte Ida, in Asia Minore, a cercare il figliolo del re di Troia, e gli dica: “O Pàride, Zeus comanda che tu, che sei molto bello e ti intendi assai delle cose d’amore, giudichi tra queste dee qual è bellissima”. La prescelta avrà il pomo. Pàride vive come un montanaro, in una capanna, e porta al pascolo capre e buoi, ma è un ragazzo ammodo, è di sangue reale, e parente del nostro coppiere Ganimede: nessuno lo riterrebbe indegno di esaminarvi e di giudicare. […] Andate dunque, e le vinte non se la prendano con il giudice, non si sdegnino, non facciano del male a quel ragazzo. Bisogna che tra voi ne scelga una e non può sottrarsi a questo compito.

Ermes, sempre impaziente, tagliò corto: – Su forza, andiamo subito dritto filato sul monte Ida in cerca di Pàride, e state tranquille: io lo conosco, è un ragazzo molto gentile e un vero intenditore di bellezza. Un’ingiustizia non la farebbe mai. – Ma vedo che siamo quasi arrivati: ecco là il monte Ida e anche il vostro giudice. – 

Era, aguzzando lo sguardo: – Sì, sì, lo vedo anch'io. Non è quello che esce dalla grotta spingendo i buoi dinanzi a sé?
– È lui. Adesso posiamo i piedi a terra e camminiamo verso di lui per non spaventarlo volandogli addosso all’improvviso.
– Salve, mandriano. –
Pàride rispose subito al saluto dello sconosciuto: – Salve a te, giovanotto che hai le ali ai piedi. Chi sei? Chi sono queste donne con te? Di così belle non ne ho mai viste su per queste montagne.
– Non sono donne, Pàride. Tu vedi dinanzi a te le dee Era, Atena, Afrodite, e me che sono Ermes.
Ci manda Zeus. Ma perché impallidisci? Non temere, non corri alcun rischio. Zeus ordina che tu giudichi qual è la più bella tra loro e a essa consegni in premio questo pomo d’oro.
– O potente Ermes, ma come posso io, che sono un semplice mandriano, giudicare bellezze simili, di cui non ho mai visto l’uguale? Forse chi vive in città tra tante cose raffinate ed eleganti potrebbe fare da giudice, non io che so soltanto distinguere tra capra e capra qual è la più bella, o tra giovenca e giovenca. Queste tre dee sono tutte ugualmente bellissime. Se ne guardo una la trovo meravigliosa e se stacco gli occhi da lei e li rivolgo a un’altra, anche questa mi pare incantevole, come le altre due che le stanno vicino. Insomma, vorrei avere cento occhi per poterle rimirare a dovere, ma non potrei mai decidere chi tra loro è la più bella. E l’imbarazzo in cui mi trovo cresce, se penso che l’una è moglie di Zeus, l’altra è sua figlia, l’altra ancora è addirittura figlia dell’antico Urano, il Cielo. Anche per questo motivo, ti confesso, mi sembra che esprimere un giudizio sia cosa troppo rischiosa.
– Che vuoi che ti dica – rispose Ermes. – Io so soltanto che non si può disubbidire al comando di Zeus e che la mela non può essere divisa.
– Ho capito, ci proverò. Non posso fare altrimenti. – E Pàride prese la mela d’oro tra le mani, pensieroso.

Allora Era gli si avvicinò e disse: – O Pàride, principe di Troia, se giudicherai me la più bella, ti renderò padrone di tutta l’Asia e ricco più di qualsiasi altro uomo sulla terra.

Dopo Era parlò Atena: – Guardami, figlio del re Priamo, e sappi che se darai a me la mela d’oro io ti renderò un guerriero invincibile, il più forte, ma anche il più saggio, di tutti gli uomini.

Fu quindi la volta di Afrodite, che soavemente sussurrò: – Ascoltami, bel giovane, se darai a me il pomo della vittoria, io ti darò in moglie la più bella donna del mondo: Elena di Sparta, che è figlia di Leda e di Zeus stesso ed è bionda, bianca e delicata, bella e amorosa quanto me, parola di dea.

– Sì, – ribatté Pàride – è la più bella donna del mondo, ma è anche moglie di Menelao! E non posso credere che abbandonerebbe il marito e la sua reggia, a Sparta, per seguire uno sconosciuto, un forestiero.
– Ah, ah, ah! – gorgheggiò Afrodite – Come sei giovane e inesperto! So io come fare a convincerla…
– E come farai? Voglio saperlo anch’io.
– Dunque, caro ragazzo, tu andrai in Grecia e io ti darò il mio figlioletto Eros, il piccolo dio dell’amore, come compagno di viaggio. Quando sarai a Sparta, Eros, di nascosto, colpirà la bella Elena con una delle sue frecce facendola innamorare pazzamente di te. Io poi ti prometto la mia protezione, per sempre.
– Me lo giuri? – gridò Paride.
– Certo che sì. 

Afrodite giurò e Pàride le consegnò il pomo prezioso. Ma in questo modo si attirò l’odio delle altre dee, che si allontanarono complottando la rovina della sua città: Troia.

Tempo dopo Pàride ottenne dal padre di essere inviato come ambasciatore a Sparta, dove regnavano Menelao ed Elena.

Il principe di Troia fu accolto con tutti gli onori da Menelao e il suo arrivo venne annunciato da un’ancella alla regina: – Da una città lontana, di là dal mare, è giunto qui un giovane straniero. È bellissimo e indossa vesti meravigliose intessute d’oro e d’argento. Chiede di poterti offrire i doni che porta con sé.
Elena, allora, indossò una tunica bianca e leggera, fittamente pieghettata, posò un diadema d’oro sui bei capelli lucenti d’olio profumato e andò incontro all’ospite.

Quando la bella donna entrò nella sala del banchetto, a Pàride sembrò di vedere una dea. Non poteva
staccare gli occhi da lei e ogni suo sorriso lo riempiva di felicità.
– Non potrò mai amare altra donna che questa – pensava – e non avrò pace finché non la farò mia sposa. È questa la donna che Afrodite ha promesso di darmi e l’avrò. A ogni costo. La porterò con me a Troia e sarò felice con lei, per sempre. 


Mentre pensava queste cose non smetteva di lanciare a Elena sguardi appassionati, sospirando.
Anche la regina lo guardava, di tanto in tanto, un po’ compiaciuta, un po’ imbarazzata. Quelle dolci occhiate resero Pàride sempre più ardito. Elena aveva appena posato sulla tavola il calice d’oro in cui aveva bevuto, che Pàride lo afferrò e se lo portò alla bocca posando le labbra dove lei aveva appena messo le sue, poi intinse un dito nel nero vino e tracciò sulla tavola le parole: – Ti amo, Elena.
Preoccupatissima, Elena coprì la scritta con il suo tovagliolo e guardò il marito, timorosamente.
Ma Menelao non si era accorto di nulla e continuava tranquillamente a mangiare, a bere, a rivolgere all’ospite domande sul suo Paese lontano.

L’indomani, il re distratto partì per l’isola di Creta, lasciando sola con lo straniero la giovane moglie.

Di nuovo Pàride dichiarò alla regina il suo amore: – Mai nessuno ti amerà quanto ti amo io. Parti con me e ti farò felice. 
Elena era affascinata dalla bellezza, dalla gentilezza e dalla devozione del giovane principe straniero, ma resisteva, perché sapeva che non era giusto abbandonare la casa, il marito e la figlioletta ancora piccola che aveva bisogno di lei.
Perciò non rispondeva agli inviti di Paride ma neppure si allontanava da lui. Soltanto quando scese la notte si ritirò nella propria stanza, ma non riuscì a prendere sonno. Ormai Eros, il dio dell’amore, aveva acceso in lei la fiamma della passione. Appena chiudeva gli occhi, la regina innamorata rivedeva il bel volto del principe straniero, ne riudiva le tenere parole. La sua mente e il suo cuore non potevano staccarsi da lui.

Prima che la luce dell’alba scivolasse nella stanza, Elena aveva preso la sua decisione: quella notte stessa avrebbe raggiunto Pàride nella sua nave e sarebbe fuggita con lui.
Così fu.

Filemone e Bauci

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Una deliziosa novella sentimentale di ambiente familiare che ci è narrata da uno dei più famosi poeti del tempo di Augusto, Ovidio (Publio Ovidio Nasone, di Sulmona – 43 a.C. – 18 d.C.) nel libro VIII delle Metamorfosi. Le figure dei due arzilli vecchietti hanno un particolare risalto nella pia leggenda, che s’immagina narrata da un uomo saggio e posato.

Si racconta che un tempo, - quando sull’Olimpo vivevano gli dei dell’antica Grecia – Giove volle discendere sulla terra per rendersi conto di come gli uomini si comportassero. Per questo, preso l’aspetto di un uomo qualunque, egli e il figlio Mercurio, il quale per l’occasione si era tolto dai piedi le ali, si diedero a percorrere le vie della Grecia. I due pellegrini, così travestiti, giunsero in Frigia senza farsi riconoscere da nessuno. Qui, desiderosi di trovare un rifugio dove riposarsi, si misero a picchiare di porta in porta chiedendo ospitalità. Bussarono così a innumerevoli palazzi, ma dovunque furono scacciati e trovarono le porte serrate a catenaccio. Giunsero finalmente ad un povera capanna ricoperta di canne e di erbe palustri, dove abitavano due vecchietti della medesima età, la pia Bauci e il buon Filemone. In quella capanna Filemone e Bauci avevano vissuto insieme fin dalla giovinezza; in quella erano invecchiati senza vergognarsi della loro povertà e sopportandola tranquillamente, tanto da non sentirne neppure il peso.
Nell'umile dimora era inutile chiedere quale fosse il servo e quale il padrone: vi erano due sole persone, e tutte e due comandavano e ubbidivano a vicenda. Qui Giove e Mercurio trovarono pronta cordiale accoglienza. Non appena furono entrati, chinando la testa per non batterla allo stipite della porta troppo bassa, il vecchio li invitò a riposarsi porgendo loro una panca sulla quale l’accorta Bauci aveva steso un rustico tappeto. Quindi la buona vecchierella allargò con le mani le ceneri tiepide del focolare e, per riattizzare il fuoco del giorno prima, lo alimentò con foglie e scorze secche, e ne fece sprizzare la fiamma soffiandovi sopra con quel poco fiato che ancora le rimaneva. Prese poi legna e rami di pino ben secchi e li spezzò per metterli sotto al piccolo paiolo; poi si diede a mondare gli erbaggi raccolti dal marito nell’orto coltivato con molto amore. L’altro con un’asta forcuta tirò giù un coscio di maiale affumicato rimasto appeso per lungo tempo alla nera trave, ne tagliò una fetta sottile e la mise a cuocere nell’acqua bollente. Frattanto ingannavano il tempo discorrendo. Infine il buon vecchio, spiccato da un chiodo un bacile, lo riempì d’acqua tiepida e l’offerse agli ospiti perché potessero lavarsi i piedi. Quindi gli dei si adagiarono su un povero lettuccio di legno di salice, ma con un materasso di soffice alga, sul quale era stata distesa la coperta dei giorni festivi; anche questa però era una coperta vecchia e misera adatta a un letto di salice. La vecchietta, serratasi la veste alla vita, cominciò a preparare la tavola. Era una tavola a tre gambe, e dovette rincalzarla perché una gamba era più corta. Quando l’ebbe ben pareggiata, ne strofinò il piano con la menta fresca e vi servì in piatti di coccio le olive sacre alla casta Minerva, le corniole dell’autunno conservate in salamoia, invidia e rafano, formaggio fresco, uova assodate nella cenere calda. Dopo fu portato in tavola un rozzo cratere, anch'esso di coccio, e coppe di faggio spalmate, nel cavo, di bionda cera. Così tolte via dalla mensa le vivande, viene mesciuto nella coppa il vinello asprigno di quell’anno medesimo, che poi, messo un poco in disparte, lascia posto alle frutta. Ecco la noce, ecco i fichi secchi insieme ai datteri rugosi, e prugne, e mele odorose negli ampi canestri, ed uva colta dalle viti rosseggianti di grappoli. In mezzo sta un candido favo ricolmo di miele. E tutto è condito con un piatto di buon viso. Senonchè durante il pasto, ogni volta che il cratere rimaneva vuoto, lo vedevano spontaneamente riempirsi, come se il vino sorgesse su dal fondo. Meravigliati per una cosa tanto straordinaria, Filemone e Bauci furon presi da timore, e levando le mani al cielo invocarono perdono per i rustici cibi e per la mancanza d’ogni apparato. Possedevano una sola oca, che faceva da guardia alla povera capanna, e i due vecchi si preparavano ad ucciderla in onore degli dei loro ospiti. L’oca, svelta, svolazzando qua e là, riesce a lungo a sfuggire ai due lenti inseguitori, e finalmente trova rifugio in grembo agli dei, che la proteggono e la salvano. 
"Noi siamo proprio dei" dissero "e i vostri empi vicini subiranno la punizione che hanno meritato; voi invece rimarrete immuni dal flagello. Abbandonate dunque la vostra casa e seguiteci sulla cima del monte".
I vecchietti ubbidirono, e, preceduti dagli dei, appoggiandosi ai loro bastoncelli, si sforzarono quanto lo permetteva la tarda età, di salir su lentamente per l’erto pendio. Erano lontani dalla cima quanto un tiro di freccia, allorchè, volgendo gli occhi al basso, scorsero tutte le cose dintorno sommerse da una palude; soltanto la loro capanna era salva. Mentre essi stupiti compiangevano la sorte dei vicini, la vecchia capanna, piccola perfino per due soli padroni, ecco si converte in un tempio: i pali a forcella di sostegno al tetto si trasformano in colonne, le stoppie diventano d’oro, il pavimento si copre di marmo, le porte appaiono magnificamente scolpite. Allora il figlio di Saturno parlò con benigna voce: "Ditemi ora, o buoni vecchi sposi, degni l’uno dell’altro, che cosa desiderate". Scambiate poche parole con Bauci, Filemone rispose: "Chiediamo di essere sacerdoti e di poter custodire il vostro tempio; e siccome abbiamo trascorso insieme d’amore e d’accordo tutta la vita, desideriamo di morire nel medesimo tempo, cosicchè io non debba vedere il sepolcro della mia sposa, né essere da lei sepolto." I loro voti vennero accolti, e i due vecchi diventarono custodi del tempio. Giunti al termine della vita, si trovarono per caso sui gradini del tempio a narrarne la storia ai visitatori. A un tratto Bauci vide Filemone mettere fronde, mentre il vecchio Filemone, dal canto suo, vedeva le membra di Bauci irrigidirsi e metter fronde anch'esse.

Intanto che la cima degli alberi cresceva, i due sposi si scambiavano parole di saluto, fino a quando fu loro possibile. "Addio, sposo mio" si dissero a un tempo. I quello stesso momento le loro labbra scomparvero sotto la corteccia. Ancora oggi, in quel medesimo luogo, i cittadini di Cibra indicano i due tronchi, l’uno accanto all'altro, nati dai due corpi.
Queste cose mi furono raccontate da persone degne di fede. Io stesso vidi poi le corone votive appese agli alberi; e mentre vi appendevo anch'io fresche ghirlande, dissi: "Gli uomini pii sono cari agli dei, e coloro che li onorano vengono onorati."

San Valentino

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La più antica notizia di S.Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secc.V-VI dove compare il suo anniversario di morte. Ancora nel sec. VIII un altro documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, successivo martirio di questi e loro sepoltura. Altri testi del sec. VI, raccontano che S.Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, per lo zelante apostolato e per i miracoli che fece, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio, insieme al figlio del Prefetto della città. Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma. Era il 14 febbraio 273. Il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia.

IL CULTO
S.Valentino fu sepolto in un’area cimiteriale nei pressi dell’attuale Basilica. E’ sicuro che quel cimitero già esisteva in età pagana. Da questa zona provengono alcuni reperti le più antiche risalgono ai secc. IV-V. Si La prima basilica fu costruita nel sec.IV la collocazione dell’edificio, fu fuori delle mura della città e in area cimiteriale sopra la tomba del martire.
Nel 1605 il vescovo Giovanni Antonio Onorati, ottenuto il permesso da papa Paolo V, fece iniziare le ricerche del corpo del Santo. Erano partite da tempo anche a Roma le ricerche dei primi martiri della Chiesa e per autenticare la loro esistenza e per accrescerne la venerazione. Il corpo di S.Valentino fu presto rinvenuto in una cassa di piombo contenuta entro un’urna di marmo rozza esternamente ma all’interno intagliata con rilievi. La testa era separata dal busto a conferma della morte avvenuta per decapitazione. Fu portata subito in Cattedrale. Nessuno in città voleva che il corpo del loro martire riposasse nella chiesa madre, poiché le reliquie dovevano essere venerate là dove erano state sepolte. Così si decise di ricostruire una nuova Basilica.
I lavori per la costruzione della Basilica iniziarono nel 1606 e durarono alcuni anni ma già dal 1609 questa poté essere officiata dai PP.Carmelitani, chiamati a custodirla. Nel 1618 il corpo del santo vescovo e martire venne solennemente riportato nella sua Basilica.

LA LEGGENDA
La festa del vescovo e martire Valentino si riallaccia agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pane, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità.
Per gli antichi Romani il mese di Febbraio era considerato il periodo in cui ci si preparava all'arrivo della primavera, considerata la stagione della rinascita. Si iniziavano i riti della purificazione: le case venivano pulite, vi si spargeva il sale ed una particolare farina.Verso la metà del mese iniziavano le celebrazioni dei Lupercali (dei che tenevano i lupi lontano dai campi coltivati). Fin dal quarto secolo A. C. i romani pagani rendevano omaggio, con un singolare rito annuale, il dio Lupercus. I Luperici, l'ordine di sacerdoti addetti a questo culto, si recavano alla grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo e qui compivano i sacrifici propiziatori. Lungo le strade della città veniva sparso il sangue di alcuni animali, come segno di fertilità; ma il vero e proprio rituale consisteva in una specie di lotteria dell'amore. I nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo Dio venivano messi in un'urna e opportunamente mescolati. Quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità, affinché il rito della fertilità fosse concluso. L'anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie.
I padri precursori della Chiesa, determinati a mettere fine a questa pratica licenziosa, crearono un santo “degli innamorati” per sostituire l’immorale Lupercus. . La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire ternano la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Nel 496 d.C Papa Gelasio annullò questa festa pagana ed iniziò il culto di San Valentino

Da questa vicenda sorsero alcune leggende.

Leggenda dell'Amore Sublime

Questa leggenda narra di un giovane centurione romano di nome Sabino che, passeggiando per una piazza di Terni, vide una bella ragazza di nome Serapia e se ne innamorò follemente.
Sabino chiese ai genitori di Serapia di poterla sposare ma ricevette un secco rifiuto: Sabino era pagano mentre la famiglia di Serapia era di religione cristiana. Per superare questo ostacolo, la bella Serapia suggerì al suo amato di andare dal loro Vescovo Valentino per avvicinarsi alla religione della sua famiglia e
ricevere il battesimo, cosa che lui fece in nome del suo amore.
Purtroppo, proprio mentre si preparavano i festeggiamenti per il battesimo di Sabino ( e per le prossime nozze), Serapia si ammalò di tisi. Valentino fu chiamato al capezzale della ragazza oramai moribonda. Sabino supplicò Valentino affinché non fosse separato dalla sua amata: la vita senza di lei sarebbe stata solo una lunga sofferenza. Valentino battezzò il giovane, ed unì i due in matrimonio e mentre levò le mani in alto per la benedizione, un sonno beatificante avvolse quei due cuori per l'eternità.

Leggenda della Rosa della Riconciliazione

Un giorno San Valentino sentì passare, al di là del suo giardino, due giovani fidanzati che stavano litigando. Decise di andare loro incontro con in mano una magnifica rosa. Regalò la rosa ai due fidanzati e li pregò di riconciliarsi stringendo insieme il gambo della rosa, facendo attenzione a non pungersi e pregando affinché il Signore mantenesse vivo in eterno il loro amore.
Qualche tempo dopo la giovane coppia tornò da lui per invocare la benedizione del loro matrimonio.
La storia si diffuse e gli abitanti iniziarono ad andare in pellegrinaggio dal vescovo di Terni il 14 di ogni mese.
Il 14 di ogni mese diventò così il giorno dedicato alle benedizioni, ma la data è stata ristretta al solo mese di febbraio perché in quel giorno del 273 San Valentino morì.

Leggenda dei Bambini

San Valentino possedeva un grande giardino pieno di magnifici fiori dove permetteva a tutti i bambini di giocare. Si affacciava sovente dalla sua finestra per sorvegliarli e per rallegrarsi nel vederli giocare.
Quando venive sera, scendeva in giardino e tutti i bambini lo circondavano con affetto ed allegria. Dopo aver dato loro la benedizione regalava a ciascuno di loro un fiore raccomandando di portarlo alle loro mamme: in questo modo otteneva la certezza che sarebbero tornati a casa presto e che avrebbero alimentato il rispetto e l’amore nei confronti dei genitori.

Da questa leggenda deriva l'usanza di donare dei piccoli regali alle persone a cui vogliamo bene.

Leggenda dei Colombini

Il sacerdote Valentino possedeva un grande giardino che nelle ore libere dall'apostolato coltivava con le proprie mani. Tutti i giorni permetteva ai bambini di giocare nel suo giardino, raccomandando che non avessero fatto danni, perché poi la sera avrebbe egli regalato a ciascuno un fiore da portare a casa. Un giorno, però, vennero dei soldati e imprigionarono Valentino perchè il re lo aveva condannato al carcere a vita. I bambini piansero tanto. Valentino, stando in carcere pensava a loro, e al fatto che non avrebbero più avuto un luogo sicuro dove giocare. Ci pensò il Signore. Fece fuggire dalla gabbia del distratto custode due dei piccioni viaggiatori che Valentino teneva in giardino. Questi piccioni, guidati da un misterioso istinto, trovarono il carcere dove stava chiuso il loro santo padrone. Si posarono sulle sbarre della sua finestra e presero a tubare fortemente. Valentino li riconobbe, li prese e li accarezzò. Poi legò al collo di uno un sacchetto fatto a cuoricino con dentro un biglietto, ed al collo dell'altro legò una chiavetta. Quando i due piccioni fecero ritorno furono accolti con grande gioia. Le persone si accorsero di quello che portavano e riconobbero subito la chiavetta: era quella del giardino di Valentino. I bambini ed i loro familiari si trovavano fuori del giardino quando il custode lesse il contenuto del bigliettino. C'era scritto:"A tutti i bambini che amo? dal vostro Valentino".

Le più famose storie d’amore spesso non hanno lieto fine Decapitazioni, martiri, miracoli: altro che rose, la storia di S. Valentino è degna di Shakespeare, che non a caso ne parla in un sonetto:

Diman ricorre San Valentino,
io, che son verginella,
vengo per tempo alla sua finestra
per esser la sua bella .
Sorse ei dal letto, mise il farsetto,
l’uscio di stanza aprì;
entrò la vergine, che mai più vergine di fuori non uscì.
Interrotta per un attimo dal re Ofelia riprende:
O buon Gesù, misericordia,
oibò, e che vergogna!
Lo fanno i giovani, se ci si trovano;
perdinci, abbiam rampogna!
Dice la tosa, mi volevi sposa
prima di stendermi su dorso.


GLI EVENTI
 A Terni è sorta la “Fondazione S.Valentino”, che cura il culto del Santo durante l’intero mese di febbraio:vi sono programmate grandi iniziative di fede e di cultura, di arte e di scienza, di spettacolo e di divertimento.



SAN VALENTINO NEL MONDO
  • San Valentino in Germania
In Germania San Valentino si festeggia più o meno come in Italia: gli innamorati infatti scrivono bigliettini ed acquistando piccoli regali e fiori per il proprio partner. Anche i tedeschi si concedono cene a lume di candela con musica soft per celebrare il proprio amore.
  • San Valentino in Olanda 
In Olanda gli innamorati si scambiano doni come testimonianza del proprio more, ma alcune persone, come in altri paesi come l'Inghilterra, spediscono biglietti e decidono di non rivelare la propria identità rimanendo anonimi. Uno dei doni più diffusi per San Valentino è un cuore di liquirizia.
  • San Valentino in Inghilterra
In Inghilterra hanno una lunga tradizione gli ammiratori anonimi: biglietti romantici e fiori vengono inviati anonimamente.

  • San Valentino in Spagna
Per tradizione gli spagnoli sono uno dei popoli più passionali: questa loro caratteristica si riscontra anche nel giorno di San Valentino in cui vengono regalate rose rosse alla persona amata.

  •  San Valentino negli Stati Uniti
San Valentino viene festeggiato da tutti: anche i bambini si scambiano biglietti raffiguranti i loro eroi dei cartoni animati.

  • San Valentino in Africa
La festa è praticamente sconosciuta  tranne che nei giovani che fanno parte delle elite politiche ed economiche delle grandi città.

  • San Valentino in Arabia Saudita
Nelle nazioni fondamentaliste, un’apposita polizia religiosa impedisce che i negozi vendano souvenir e doni di San Valentino e che la ricorrenza venga promossa sui mass-media.
Nel 2008, i festeggiamenti di San Valentino sono stati ufficialmente banditi in Arabia Saudita.

Anche in paesi come l’Iran ed il Pakistan le forze conservatrici sparano a zero su questa ricorrenza importata, ma i giovani non la disdegnano… privatamente, comunque.

  • San Valentino in India
Sorprendentemente in India il montante tradizionalismo induista, foraggiato dal governo, si è lanciato contro San Valentino.
  • San Valentino in Giappone 
In Giappone la festa di San Valentino viene celebrata seguendo un preciso rituale: il 14 febbraio le ragazze offrono del cioccolato (industriale o fatto a mano, solitamente scuro) al ragazzo che amano come strumento di comunicazione non verbale. Se costui accetta l'amore della ragazza, può ricambiare con un altro gesto non verbale che consiste nel consegnare a sua volta un dono alla ragazza il 14 marzo, il white day. Solitamente il dono che viene consegnato per il white day consiste in un pacchetto di cioccolato bianco (ma anche biscotti, dolci in genere o anche peluche, gioielli e biancheria intima, l'importante è che sia di colore bianco o chiaro), ed è più costoso di quello di San Valentino: si usa infatti l'espressione sanbai gaeshi (三倍返し? "tre volte al ritorno") per indicare che il regalo dell'uomo deve avere un valore doppio o triplo di quello della donna. Come per il cioccolato di San Valentino, anche per il white day esistono tre categorie di doni:
honmei-choko (本命チョコ? "cioccolato del favorito") che si consegna alla persona amata
tomo-choko (友チョコ? "cioccolato dell'amico") regalato agli amici
giri-choko (義理チョコ? "cioccolato d'obbligo"), dato per convenzione sociale a colleghi e compagni
Il white day è stato introdotto nel 1978 dal Zenkoku ame kashi kōgyō kyōdō kumiai (全国飴菓子工業協同組合? "Associazione nazionale delle industrie dolciarie") come risposta al giorno di San Valentino. L'idea rappresenta un'estensione sull'intero territorio nazionale del marshmallow day, inventato nel 1977 dalla Ishimura manseido (石村萬盛堂?), un'azienda confettiera di Fukuoka che il 14 marzo vendeva agli uomini confezioni regalo di marshmallow da usare come risposta al cioccolato del 14 febbraio.

In tempi più recenti il rito della consegna del cioccolato viene effettuato non solo dalle ragazze (che sono ancora la maggioranza), ma in generale da chi prova un sentimento nei confronti di qualcun altro: è un modo non verbale per confessare il proprio amore, amicizia o altro in base al contesto.

  • San Valentino in Corea del Sud
San Valentino si festeggia come in Giappone, ma il 14 aprile, giorno noto come "giornata nera", chi non avesse ricevuto nulla il 14 febbraio o il 14 marzo si recherà in un ristorante, mangerà spaghetti al nero di seppia lamentandosi e rattristandosi della propria solitudine.

  • San Valentino in Galles
In Galles molti festeggiano il giorno di San Dwynwen, patrono degli innamorati gallesi, il 25 gennaio.

  • San Valentino in Finlandia e in Estonia, 
Il 14 febbraio si chiama "Il giorno degli amici": si ricordano tutti gli amici, e non solo gli innamorati.

  • San Valentino in Slovenia
Il 14 febbraio è il giorno in cui si comincia a lavorare nei campi, mentre la tradizionale festa degli innamorati è San Gregorio, il 12 marzo.

  • San Valentino in Romania
La festa degli innamorati si chiama Dragobete, e cade il 24 febbraio. Dragobete è nella mitologia rumena il figlio di Baba Dochia, che rappresenta a sua volta l'impazienza degli uomini nell'attesa dell'arrivo della primavera.

  • San Valentino in Sud America
La festa è simile a quella nordamericana, ma include sia gli innamorati che gli amici. Si chiama infatti "Día del Amor y la Amistad".

  • San valentino in Colombia 
Si celebra però il 20 settembre.

  • San Valentino in Brasile, 
San Valentino è completamente ignorato per via dell'importanza maggiore assunta dal Carnevale, che può cadere proprio in quel periodo. La festa degli innamorati si festeggia invece il 12 giugno, il giorno prima di Sant'Antonio, in cui le donne nubili svolgono riti per trovare un compagno.

  • San Valentino in Cina
In Cina, è l'uomo a comprare fiori e cioccolatini alla donna. Esiste però una tradizione più antica chiamata "La notte dei sette" (Qi Xi), che cade nel settimo giorno del settimo mese del calendario cinese. Ovvero, ad Agosto. Durante questa festa, le giovani nubili mostrano pubblicamente le loro arti domestiche nella speranza di trovare un compagno.

  • San Valentino in Iran
La festa degli innamorati si chiama "Sepandarmazgan", e si festeggia il 29 Bahman del calendario Jalali. Cioè, il 17 febbraio. Il governo preferisce che non venga festeggiato invece San Valentino, ma pare che gli iraniani più giovani lo facciano ugualmente, scambiandosi doni e ciocciolatini di nascosto.


Fonti:
amando.it 
donnamoderna.com 
wikipedia.org
guidesupereva.it
diocesi.terni.it


per San Valentino trovi anche:

Ricette San
Valentino

Storie vero
amore

Poesie d'amore

Cupido o Eros

Al Mio Papà

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Oh mio caro papà
Ti vorrei mandare un letterone
lungo sei facciate, ma le parole non le so trovare,
le avevo in mente se ne sono andate.

Ora le porto nel cuoricino,
ma se leggerle tu vuoi, fatti vicino
metti l’orecchio nel mio petto
e stai a sentire; senti?

Lo senti quanto bene ti voglio?
Allora non ti scrivo e strappo il foglio!
Buona festa Papà!

Cos'è un Papà - L.Musacchio

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Il papà non è solo
l'amico delle capriole sul letto grande
non è solamente l'albero al quale mi arrampico
come un piccolo orso
non è soltanto chi tende con me l'aquilone nel cielo.

Il papà è il sorriso discreto che fa finta di niente
è l'ombra buona della grande quercia
è la mano sicura che mi conduce nel prato
e oltre la siepe.

Festa del papà

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Il 19 marzo ricorre, in concomitanza con la festa di San Giuseppe, la festa del Papà. 
Questa coincidenza non è un caso; da un lato perché il santo incarna la figura del padre e del marito atavico, (essendo il marito della vergine Maria e il padre di nostro signore Gesù cristo), e dall'atro perché nella tradizione popolare protegge oltre che i poveri anche gli orfani, le ragazze nubili, e, in virtù della sua professione, anche i falegnami (non a caso questi ultimi sono i principali promotori della sua festa). 

Le origini della festa pare vengano dai lontani Usa. E’ qui che una giovane donna decise di dedicare un giorno speciale a suo padre. Da allora sono passati ben due secoli. 

Quando la festa fu esportata in Italia si decise di differenziarla dalla gemella statunitense la quale l’associava al compleanno del Signor Smart che ricorreva a giugno. Si decise infatti di festeggiarla il giorno di san Giuseppe e di proclamarla come festa nazionale.

La festa di San Giuseppe è caratterizzata da alcune manifestazioni , alcune sono ancora in vigore , altre pare siano cadute in desuetudine. 
Le origini della festa del papà 

Le origini della festa del papà si perdono nella notte dei tempi, e come tutte le tradizioni e le leggende, è avvolta dal mistero. 

Le antiche origini, risalgono ai tempi dei babilonesi, quando un giovane ragazzo dal nome Elmesu scrisse al padre, quasi 4.000 anni fa, su una piastra di argilla un messaggio di augurio di buona salute e per una vita duratura. 

Secondo alcune fonti, l'usanza di festeggiare la festa del papà ebbe inizio in Olanda nel 1936 e in occasione di questa festa i padri intraprendevano una gita per soli uomini. 

Oggi, tuttavia, la cosiddetta festa del papà viene celebrata più o meno frequentemente solo in alcuni Paesi europei, in giorni diversi e in modo differente da un nazione all'altra. Nei paesi anglosassoni, la festa del papa' ricorre a Giugno e non ha alcun legame con alcun santo. 

In Olanda, viene festeggiata il 18 Giugno. Secondo questa stessa tradizione, riconosciuta anche dai Paesi Bassi, l'idea di creare un giorno per i bambini che possono onorare il loro padre nacque nel 1909 a Spokane, Washington (USA), da una donna, Sonora Smart Dodd, mentre stava ascoltando il sermone nel giorno della festa della mamma. 

Sonora fu cresciuta dal padre, Henry Jackson Smart, dopo che la madre mori' e volle far conoscere a tutti quanto questo premuroso genitore fosse importante per lei. Un genitore che le fece anche da madre, e che era coraggioso, altruista e soprattutto amorevole. 

Fu scelta la data del 19 Giugno, proprio perchè il padre di Sonora nacque nel Giugno del 1910. La prima festa del papà fu celebrata proprio il 19 Giugno 1910 a Spokane, Washington (USA). 
Le rose sono il simbolo di questa festa, rosse, se il genitore e' ancora in vita, bianche, in caso contrario.

La data in generale varia da Paese a Paese. 

Pochi paesi nel mondo festeggiano la festa del papà il 19 marzo. In effetti l’origine di questa data risale ad un’usanza cattolica di associarla alla ricorrenza di San Giuseppe, padre putativo di Gesù. Così, paesi di tradizione cattolica come la Spagna festeggiano questo stesso giorno. Nella maggioranza dei paesi invece la festa del papà cade la terza domenica di giugno. 

Negli Stati Uniti dal 1924 fu dichiarata festa nazionale e durante la presidenza Johnson si stabilì che fosse la terza domenica di giugno. I paesi che si rifanno alla tradizione statunitense sono molti, tra i quali Cuba, Francia, Ungheria e Venezuela. In America del Sud, il giorno del papà è una ricorrenza molto sentita: si festeggiano i papà ed anche gli zii ed i nonni ed è tradizione fare un regalo. In Argentina si festeggiò la prima volta il 24 agosto 1958, in corrispondenza dell’anniversario di José di San Martin, il padre della patria; dall’anno successivo la festa del papà si festeggia come negli Stati Uniti.

La festa di San Giuseppe 

La Chiesa cattolica ricorda san Giuseppe il 19 marzo con una solennità a lui intitolata. I primi a celebrarla furono monaci benedettini nel 1030, seguiti dai Servi di Maria nel 1324 e dai Francescani nel 1399. Venne infine promossa dagli interventi dei papi Sisto IV e Pio V e resa obbligatoria nel 1621 da Gregorio VI. I papi Pio IX e Pio XI inoltre consacrarono il mese di Marzo a san Giuseppe. 

La festa di San Giuseppe che si celebra il 19 Marzo ha origini molto antiche, che risalgono alla tradizione pagana. Il 19 Marzo è a tutti gli effetti la vigilia dell’equinozio di primavera, quando si svolgevano i baccanali, i riti dionisiaci volti alla propiziazione della fertilità. Nel mese di Marzo venivano svolti anche i riti di purificazione agraria. 

Tradizioni 

Poiché la festa di San Giuseppe coincide con la fine dell’inverno si è sovrapposta ai riti di purificazione agraria, effettuati nel passato pagano , in questa occasione si bruciano i residui del raccolto sui campi, ed enormi cataste di legna vengono accese ai margini delle piazze. Quando il fuoco sta per spegnersi, alcuni lo scavalcano con grandi salti, e le vecchiette, mentre filano, intonano inni per San Giuseppe.

San Giuseppe, oltre ad essere il patrono dei falegnami e degli artigiani, è anche il protettore dei poveri. Proprio per questa ragione alla festa di san Giuseppe è legato anche il pane, spesso deposto sugli altari. 

Poiché in questo giorno, si ricorda la sacra coppia di giovani sposi, in un paese straniero ed in attesa del loro Bambino, che si videro rifiutata la richiesta di un riparo per il parto e poiché questo atto viola due sacri sentimenti: l'ospitalità e l'amore familiare, esso viene ricordato in molte regioni con l'allestimento di un banchetto speciale.  In Sicilia e nel Salento sono diffuse usanze denominate “Tavole di San Giuseppe”: la sera del 18 marzo le famiglie che intendono assolvere un voto o esprimere una particolare devozione al santo allestiscono in casa un tavolo su cui troneggia un’immagine del santo e sul quale vengono poste paste, verdure, pesci freschi, uova, dolci, frutta, vino. Sono poi invitati a mensa mendicanti, familiari e amici, tre bambini poveri rappresentanti la Santa Famiglia. Si riceve il cibo con devozione e spesso recitando preghiere, mentre tredici bambine con in testa una coroncina di fiori, dette “tredici verginelle”, cantano e recitano poesie in onore di S. Giuseppe. Talvolta è un intero quartiere a provvedere e allestire le tavole all’aperto.


Alimento tradizionale di questa festa sono le “frittelle” a Firenze e a Roma, chiamate “zeppole” a Napoli e in Puglia, “sfincie” a Palermo. In Canton Ticino sono tradizionali i “tortelli di San Giuseppe“. 

Fonti: 

parlandosparlando.com
italiaculturale.it
frasionline.it
bebeblog.it




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