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L'abete
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Gli alberi di città
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Festa degli alberi - 21 novembre
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Illustrazione di Rosa Taormina |
Gli alberi sono lo sforzo infinito della terra per parlare al cielo....
La festa degli alberi rappresenta una delle più antiche e gloriose cerimonie forestali che la tradizione nazionale eredita da culture lontane nel tempo e nello spazio. Infatti presso i Greci e gli antichi popoli orientali era molto diffusa l'usanza di celebrare feste in occasione della piantagione di alberi. Fin dai tempi più antichi all'albero ed ai boschi veniva attribuita una grande importanza e già nella primissima epoca romana gli alberi erano classificati in olimpici, monumentali, divinizzanti, eroici, ferali, felici, infausti, mentre i boschi erano suddivisi in sacri, divinizzanti e profani.
Le popolazioni celtiche e i romani, con le loro usanze ed i loro culti, precorsero l'odierna "Festa dell'Albero"; questi infatti erano tutelati e conservati anche per motivi legati alla religione ed era consuetudine consacrare i boschi al culto delle divinità dell'epoca.
Numerosi sono i documenti del passato che testimoniano quanto diffuso fosse l'impianto di nuove piantine in occasione di feste, ricorrenze ed avvenimenti. La più grande festa silvana in epoca romana era la "Festa Lucaria" che cadeva il 19 luglio, nel corso della quale, oltre ai riti propiziatori si festeggiavano le particelle di bosco impiantate nei mesi precedenti.
Numerosi erano inoltre i numi e i geni tutelari dei boschi e delle selve comeSilvanoche veniva rappresentato in procinto di collocare a dimora una piantina di cipresso.
In epoca moderna la necessità di educare la popolazione al rispetto ed all'amore degli alberi anche attraverso una celebrazione si concretizzò per la prima volta in alcuni stati del Nord America intorno alla seconda metà dell'Ottocento quando, in conseguenza di spaventose inondazioni, larga parte del territorio fu colpita da disastrosi disboscamenti. Per questo motivo, nel 1872, il Governatore dello Stato del Nebraska, Sterling Morton, pensò di dedicare un giorno all'anno alla piantagione di alberi per creare una coscienza ecologica nella popolazione e per accrescere, così, anche il patrimonio forestale del proprio paese. Lo stesso anno venne istituito il primo parco naturale del mondo, quello di Yellowstone. Nella prima edizione pare che furono piantati un milione di alberi in tutti gli Stati Uniti. Quel giorno fu chiamato Arbor day e la sua risonanza giunse anche in Europa dove trovò molti estimatori che diffusero l'iniziativa.
In Italia la festa degli alberi è arrivata alla fine dell’Ottocento e, pur avendo conosciuto periodi di maggiore o minore fortuna, viene tuttora celebrata e, alla luce delle grandi questioni ambientali, tende ad assumere significati sempre più rilevanti.
La prima "Festa dell'albero" fu celebrata nel 1898 per iniziativa dallo statista Guido Baccelli, quando ricopriva la carica di Ministro della Pubblica Istruzione. Nella legge forestale del 1923, essa fu istituzionalizzata nell'art. 104 che recita: "E' istituita la Festa degli alberi. Essa sarà celebrata ogni anno nelle forme che saranno stabilite di accordo fra i Ministri dell'Economia Nazionale e dell'Istruzione Pubblica" con lo scopo di infondere nei giovani il rispetto e l'amore per la natura e per la difesa degli alberi.
Nel 1951 una circolare del Ministero dell'Agricoltura e delle Foreste stabiliva che la "Festa degli alberi" si dovesse svolgere il 21 Novembre di ogni anno, con possibilità di differire tale data al 21 marzo nei comuni di alta montagna.
La celebrazione si è svolta con regolarità e con rilevanza nazionale fino al 1979; successivamente è stata delegata alle Regioni che hanno provveduto e provvedono localmente ad organizzare gli eventi celebrativi.
La "Festa degli Alberi", oggi, mantiene inalterato il valore delle sue finalità istitutive che sono ancor più attuali di un secolo fa e rappresenta un importante strumento per creare una sana coscienza ecologica nelle generazioni future che si troveranno ad affrontare problemi ed emergenze ambientali sempre nuovi e su scala globale.
L'albero oggi non è più sentito dal cittadino moderno come elemento fondamentale per la vita, in quanto fonte di energia calorica o elemento strutturale indispensabile per le abitazioni e la formazione degli attrezzi ; e non è nemmeno più sentito come un elemento decorativo, edonistico, capace di valorizzare lo status sociale legato ad una gratificazione data dal piacere di possedere un oggetto "vivente".
All'indomani dell'entrata in vigore del protocollo di Kyoto, i vegetali e gli alberi, in quanto contribuiscono a ridurre i gas serra, tornano nuovamente ad essere alleati strategici dell'uomo per garantirgli la sopravvivenza sul pianeta Terra.
Negli ultimi decenni del secolo scorso è valsa l'assunzione che maggiore informazione equivale a comportamenti più responsabili, e quindi educare implica sensibilizzare. Alcuni passaggi storici fondamentali, in questo senso, sono:
- (1972, conferenza ONU di Stoccolma) si parla di educazione sui problemi ambientali, essenziale per aumentare nella collettività il senso di responsabilità per la protezione dell'ambiente;
- (Conferenza UNESCO di Belgrado, 1975) l'educazione ambientale serve per formare una popolazione cosciente e preoccupata dell'ambiente[...];
- (UNESCO, dichiarazione di Tblisi, 1977) utilizzando le scoperte scientifiche e tecnologiche (...) l'Educazione deve creare comportamenti positivi nei confronti dell'Ambiente;
- (1992, conferenza di Rio, Agenda21) L'educazione riveste notevole importanza per la promozione di uno sviluppo sostenibile e migliorare la capacità degli individui ad interessarsi ai problemi dell'ambiente e dello sviluppo;
- (O.N.U. 1992) L'educazione (...) è essenziale per formare una coscienza informata (...) negli atteggiamenti e nelle competenze necessarie per uno sviluppo sostenibile;
- (dichiarazione di Salonicco, UNESCO 1997) l'E.A. contribuisce a ricostruire il senso di identità e le radici di appartenenza(...) creando anche un rapporto affettivo tra persone, comunità e territorio;
- (art. 7 della Carta dei Principi dell’educazione ambientale approvata al convegno di Fiuggi, comitato interministeriale di indirizzo e coordinamento, aprile 1997) l’E.A. non può essere una nuova materia d’insegnamento, non può essere circoscritta al solo tempo scolastico, ma deve contribuire a ricostruire il senso di identità e le radici di appartenenza, dei singoli e dei gruppi, a sviluppare il senso civico e di responsabilità verso la res pubblica, a diffondere la cultura della partecipazione e della cura per la qualità del proprio ambiente, creando anche un rapporto affettivo tra le persone, la comunità ed il territorio;
- Definizione di Intelligenza Ecologica: si riferisce alla nostra capacità collettiva di comprendere l’impatto umano sugli ecosistemi e di agire in modo da riattivarli e minimizzare questo impatto (Daniel Goleman, psicologo statunitense autore di ricerche sull'intelligenza emotiva e l'intelligenza sociale, e che ha coniato questo termine per definire quella che, dal suo punto di vista, è una prossima tappa nell'evoluzione del cervello umano, Intelligenza ecologica, 2009).
Il Decalogo dell'Albero.
1 -Osserva l’albero, testimone della memoria.
L’albero antico custodisce in sè le radici della storia e può narrare le vicende più remote. Nessun altro essere vivente eguaglia lontanamente la sua età: che in qualche caso, come quello del Pino longevo della California, detto Matusalemme, può aggirarsi intorno ai 5.000 anni.
2 - Onora l’albero, padre della spiritualità.
Presso tutti i popoli semplici e primitivi l’albero è sacro, e come narra Plinio il Vecchio “le foreste furono i templi delle divinità”. Ed infatti le prime colonne di questi templi non erano costruite da blocchi di marmo, ma da autentici tronchi giganteschi di Cipresso di Creta e di Cedro del Libano.
3 - Rispetta l’albero, radice dei miti.
Nei tempi più remoti, si credeva che l’origine del mondo fosse collegata all'albero cosmico, un albero straordinario ed immenso, con chioma espansa e forte, che costituiva l’asse dell’Universo ed univa il mondo degli abissi sotterranei, esplorati da radici possenti, al cielo più alto e alla stessa divinità.
Ancor oggi molti popoli primitivi, come gli indios amazzonici, ritengono che i grandi alberi della foresta tropicale pluviale sostengano la volta celeste, e che il cielo crollerà il giorno in cui questi alberi verranno abbattuti.
4 - Ammira l’albero, fonte di ispirazione.
Dalla contemplazione dello splendore e della varietà degli alberi scaturisce la scoperta e l’apprezzamento per l’armonia e la bellezza del mondo. Ogni albero racchiude una storia, un mistero, una sorpresa per la mente e il cuore dell’uomo che sappia penetrare oltre la sua scorza. Ed offre equilibrio e creatività a quanti si avvicinino ad esso con occhio giovane, libero e aperto.
5 - Conserva l’albero, casa degli animali.
L’albero è anche l’insostituibile dimora segreta per mille creature di tutte le specie, animali grandi e piccoli, familiari e sconosciuti, che vi trovano cibo, tana e rifugio.
Soprattutto i grandi alberi plurisecolari, nella fase finale del loro ciclo vitale, e lo stesso legno morto che ne deriva, offrono l’ambiente ideale per la riproduzione di una biodiversità tanto rara, quanto ricca e preziosa, essenziale per il funzionamento e la stabilità degli ecosistemi.
6 - Tutela l’albero, custode del suolo.
Un grande albero sano, in un bosco ben conservato, può assorbire con la sua chioma metà della pioggia, restituendo poi gradualmente l’acqua raccolta, sotto forma di vapore acqueo. Ma anche la pioggia che raggiunge e penetra il suolo vi arriva sapientemente dosata e smorzata, senza quella terribile forza dinamica di erosione che, sui suoli denudati, ha creato nel nostro Paese la piaga di frane, alluvioni, smottamenti e dissesto idrogeologico.
7 - Proteggi l’albero, sorgente di forza e di vita.
Ogni albero sprigiona colori inarrivabili, suoni indecifrabili e profumi sconosciuti in ogni ora del giorno e della notte, e nelle varie stagioni. Ed anche dopo la morte, i rami caduti, i tronchi in disfacimento e i ceppi marcescenti offrono asilo e nutrimento alla più varia, ricca e preziosa microfauna e microflora: una straordinaria comunità vivente, dalla quale dipendono la fertilità del suolo e gli equilibri dell’ecosistema.
8 - Difendi l’albero, purificatore dell’aria.
Un albero grande e bello costituisce un patrimonio insostituibile: tagliarlo quando è maturo, sostituendolo con un giovane germoglio, non garantisce affatto la compensazione di tutti i servizi ecologici perduti. La superficie fogliare di un albero appena piantato è infatti di circa un metro quadrato, vale a dire oltre mille volte inferiore a quella d’un albero adulto.
9 - Apprezza l’albero, sorgente di benessere e di felicità.
L’albero offre generosamente molti ecoservizi inestimabili per l’umanità, tra cui in primo luogo un’efficace azione di climatizzazione soprattutto nei periodi più caldi ed afosi, donando ombra fresca e ristoro, riducendo la temperatura ed aumentando l’umidità. Lo stesso albero può inoltre smorzare fino a metà la velocità del vento, attenuando sensibilmente anche tutti i fastidiosi rumori circostanti.
10 - Godi dell’albero e dei suoi doni preziosi.
L’albero può offrire risorse materiali inestimabili – legno, rami e fogliame, frutti, bacche e radici – ricche di utilità molteplici per la vita dell’uomo: da sfruttare però con misura e saggezza, raccogliendo sì i frutti e le altre risorse rinnovabili, ma senza mai impoverire né intaccare il basilare patrimonio che le produce.
Decalogo degli alberi - Festa degli alberi Sardegna 1959
1 - Ama e salva da ogni cagion di danno l’albero e la foresta
2 - Ricorda che i boschi sono la maggiore ricchezza della montagna, presidio e salute del piano, espressione mirabile della natura.
3 - Ricorda che il disboscamento, segno di ignoranza, nuoce alla Patria e la sminuisce all'estero.
4 - Non dimenticare che l’Italia, in pace e ancor più in guerra abbisogna di legname, mentre ora paga un tributo non, lieve allo straniero anche per questo indispensabile prodotto.
5- Insegna al montanaro che l’amore del luogo natio non si concilia con la rovina dei boschi.
6 - Adoperati perché ogni anno si affidino alla tua terra con sacra cura poche o molte piantine per celebrare la “Festa nazionale dell’albero”.
7- Migliora, senza estenderli a danno del bosco, i prati e i pascoli montani.
8 - Riconosci che la pastorizia, tanto utile, riesce dannosa al monte se male esercitata.
9 - Rammenta sempre e ovunque che la capra è indice di miseria e di economia silvana primitiva.
10 - Risuscita l’antica e gloriosa coscienza forestale, coopera con i tecnici al provvido apostolato, ammaestra chi deve osservare le patrie leggi, a tutela del bosco e del monte.
Un albero di medie dimensioni dà l’ossigeno necessario per trenta uomini.
Un albero è un campo di energie elettromagnetiche potentissime.
Un albero , come tutto ciò che ci circonda, fa parte della nostra vita. Perciò puoi rispettarlo.
Fra le continue meraviglie della natura
l'albero è forse la meraviglia
che si avvicina di più a quella dell'uomo...
Fonti:
ibc.regione.emilia-romagna.it
giornatadeglialberi.it
sardegnaambiente.it
comitatoparchi.it
corpoforestale.it
legambiente.it
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Libri per Natale
Una raccolta di classiche letture natalizie... Albero di natale, luci soffuse, bambini in pigiama e un bel libro... la magica atmosfera del Natale invaderà la casa!
Canto di Natale di Charles Dickens
Chi non ricorda la storia del vecchio Scrooge che nella gelida notte della vigilia di Natale riceve la visita del fantasma del Natale passato, presente e futuro.
Polar Express di Chris Van Allsburg
Un altro libro da non perdere, da cui è stato tratto un bellissimo film da vedere con i bambini: un bambino sale sul treno che sembra attendere solo lui: il Polar Express, diretto al Polo Nord.
Miracolo di una notte d'inverno
Tra i racconti di Natale meno tradizionali, ma non per questo meno interessanti, c'è questo libro di di Marko Leino che racconta la storia di Babbo Natale.
Il Grinch
Consigliamo questo libro di Dr Seuss, da cui è stato tratto un famoso film con Jim Carrey, per gli appassionati di storie divertenti
Le lettere di Babbo Natale
Il 25 dicembre 1920 J.R.R. Tolkien cominciò ad inviare ai propri figli lettere firmate da Babbo Natale e continuò per trent'anni
Il 25 dicembre 1920 J.R.R. Tolkien cominciò ad inviare ai propri figli lettere firmate da Babbo Natale e continuò per trent'anni
Storie di Natale nel mondo
Il viaggio dei tre re. Aspettando Natale di Beatrice Masini (Autore), Angela Marchetti (Autore)
24 storie di Natale narrate con fantasia e poesia da Beatrice Masini, una delle autrici per ragazzi più note in Italia. Partendo dal 1° dicembre fino alla vigilia. Protagonisti delle storie, tre Re che sbagliano cometa e iniziano un viaggio all'insegna della speranza e dell'attesa. Sul loro cammino incontrano diverse persone dell'epoca, tra cui Giuseppe e Maria, i pastori... Quando infine bussano a una porta e vengono accolti da una luce calda, è la sera del 24 dicembre.
Per i più piccoli letture speciali da fare con i genitori...
Fiabe e racconti per il Natale di Elena Iarussi
Una collezione di fiabe e leggende illustrate, che celebrano l'atmosfera e la tradizione natalizia. Canto di Natale, La storia di Babbo Natale, Il gigante egoista, La piccola fiammiferaia e altre affascinanti storie senza tempo da leggere e rileggere Età di lettura: da 3 anni.
Le filastrocche di Natale. Ediz. illustrata. Con CD Audio di Patrizia Nencini (Autore), Giuliana Donati (Autore)
"Filastrocca di Natale, questa notte è speciale, è speciale per davvero e il mio cuore è sincero!". Tante belle e divertenti filastrocche di Natale da leggere, ricordare e ascoltare. Età di lettura: da 3 anni.
La cena di Natale di Daniel Dargent (Autore), Magali Le Huche (Autore), T. Gurrieri (Traduttore)
Gnam gnam! La volpe ha catturato un bel tacchino anzi una Signora Tacchina! I suoi compagni, il lupo e la donnola, si leccano già i baffi: la cena di Natale quest'anno sarà formidabile! Il problema è che la Signora Tacchina ha la pelle dura (è proprio il caso di dirlo) e non ha nessuna intenzione di lasciarsi cucinare tanto facilmente... al contrario: vista la confusione che regna nella casa dei tre bricconi la Signora Tacchina decide di mettere un po' di ordine nella loro vita e molto presto i tre amici si pentiranno di non essere vegetariani!
Babbo Natale e la notte dei sogni. di Valentina Rizzi (Autore), Francesca Carabelli (Autore)
Babbo Natale non sa proprio come fare: vorrebbe esaudire i desideri di bambini e bambine, ma il postino ha perso tutte le letterine! Solo Mister Pi lo potrà aiutare!
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Prova d'amore - fiabe africane
C'era una volta un re che aveva una figlia ammirata da tutti per la sua bellezza e bontà.
Molti venivano a offrirle gioielli, stoffe preziose, noci di kola, sperando d'averla come sposa. Ma la giovane non sapeva decidersi.
- A chi mi concederai? - chiese a suo padre.
- Non so - disse il padre - Lascio scegliere a te: sono sicuro che tu, giudiziosa come sei, farai la scelta migliore.
- Facciamo così - propose la giovane - Tu fai sapere che sono stata morsa da un serpente velenoso e sono morta. I membri della famiglia reale prenderanno il lutto. Suoneranno i tam-tam dei funerali e cominceranno le danze funebri. Vedremo cosa succederà.
Il re, sorpreso e un po' controvoglia, accettò.
La triste notizia si diffuse come un fulmine. Nei villaggi fu un gran parlare sommesso, spari di fucile rintronavano in segno di dolore, mentre le donne anziane, alla porta della stanza mortuaria, sgranavano le loro tristi melopee. Ed ecco arrivare anche i pretendenti della principessa. Si presentarono al re e pretesero la restituzione dei beni donati.
- Giacché tua figlia è morta, rendimi i miei gioielli, le stoffe preziose, le noci di kola.
Il re accontentò tutti, nauseato da un simile comportamento. Capì allora quanto sua figlia fosse prudente. Per ultimo si presentò un giovanotto, povero, come appariva dagli abiti dimessi che indossava.
Con le lacrime agli occhi egli disse:
- O re, ho sentito la dolorosa notizia e non so come rassegnarmi. Porto queste stoffe per colei che tanto amavo segretamente. Non mi ritenevo degno di lei. Desidero che anche nella tomba lei sia sempre la più bella di tutte. Metti accanto a lei anche queste noci di kola perché le diano forza nel grande viaggio.
Il re fu commosso fino al profondo del cuore. Si presentò alla folla, fece tacere ogni clamore e annunciò a gran voce:
- Vi do una grande notizia: mia figlia non è morta. Ha voluto mettere alla prova l'amore dei suoi pretendenti. Ora so chi ama davvero e profondamente mia figlia. E' questo giovane! E' povero ma sincero.
Dopo qualche tempo si celebrarono le nozze con la più bella festa mai vista a memoria d'uomo.
I vecchi pretendenti non c'erano e non si fecero più vedere.
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Le trasformazioni di Pictor di Hermann Hesse
Appena giunto in paradiso Pictor si trovò dinnanzi ad un albero che era insieme uomo e donna. Pictor salutò l'albero con riverenza e chiese: "Sei tu l'albero della vita?". Ma quando, invece dell'albero, volle rispondergli il serpente, egli si voltò e andò oltre.
Era tutt'occhi, ogni cosa gli piaceva moltissimo. Sentiva chiaramente di trovarsi nella patria e alla fonte della vita.E di nuovo vide un albero, che era insieme sole e luna. Pictor chiese: "Sei tu l'albero della vita?".
Il sole annuì e sorrise. Fiori meravigliosi lo guardavano, con una moltitudine di colori e di luminosi sorrisi, con una moltitudine di occhi e di visi. Alcuni annuivano e ridevano, altri annuivano e non sorridevano: ebbri tacevano, in se stessi si perdevano, nel loro profumo si fondevano. Un fiore cantò la canzone del lillà, un fiore cantò la profonda ninna nanna azzurra. Uno dei fiori aveva grandi occhi blu, un altro gli ricordava il primo amore. Uno aveva il profumo del giardino dell'infanzia, il suo dolce profumo risuonava come la voce della mamma. Un altro, ridendo, allungò verso di lui la sua rossa lingua curva. Egli vi leccò, aveva un sapore forte e selvaggio, come di resina e di miele, ma anche come di un bacio di donna.
Tra tutti questi fiori stava Pictor, pieno di struggimento e di gioia inquieta. Il suo cuore, quasi fosse una campana, batteva forte, batteva tanto; il suo desiderio ardeva verso l'ignoto, verso il magicamente prefigurato.
Pictor scorse un uccello sull'erba posato e di luminosi colori ammantato, di tutti i colori il bell'uccello sembrava dotato. Al bell'uccello variopinto egli chiese: "Uccello, dove è dunque la felicità?".
"La felicità?" disse il bell'uccello e rise con il suo becco dorato, "la felicità, amico, è ovunque, sui monti e nelle valli, nei fiori e nei cristalli".
Con queste parole l'uccello spensierato scosse le sue piume, allungò il collo, agitò la coda, socchiuse gli occhi, rise un'ultima volta e poi rimase seduto immobile, seduto fermo nell'erba, ed ecco: l'uccello era diventato un fiore variopinto, le piume si erano trasformate in foglie, le unghie in radici.
Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l'uccello si era fatta pianta. Pictor vide questo con meraviglia.
Nella gloria dei colori, nella danza e negli splendori, l'uccello si era fatta pianta. Pictor vide questo con meraviglia.
E subito il fiore-uccello cominciò a muovere le sue foglie e i suoi pistilli, già era stanco del suo essere fiore, già non aveva più radici, scuotendosi un po' si innalzò lentamente e fu una splendida farfalla, che si cullò nell'aria, senza peso, tutta di luce soffusa, splendente nel viso. Pictor spalancò gli occhi dalla meraviglia.
Ma la nuova farfalla, l'allegra variopinta farfalla-fiore-uccello, il luminoso volto colorato volò intorno a Pictor stupefatto, luccicò al sole, scese a terra lieve come un fiocco di neve, si sedette vicino ai piedi di Pictor, respirò dolcemente, tremò un poco con le ali splendenti, ed ecco, si trasformò in un cristallo colorato, da cui si irraggiava una luce rossa. Stupendamente brillava tra erbe e piante, come rintocco di campana festante, la rossa pietra preziosa. Ma la sua patria, la profondità della terra, sembrava chiamarla; subito incominciò a rimpicciolirsi e minacciò di scomparire. Allora Pictor, spinto da un anelito incontenibile, si protese verso la pietra che stava svanendo a la tirò a sé. Estasiato, immerse lo sguardo nella sua luce magica, che sembrava irraggiargli nel cuore il presentimento di una piena beatitudine.
All'improvviso, strisciando sul ramo di un albero disseccato, il serpente gli sibilò nell'orecchio:" La pietra ti trasforma in quello che vuoi. Presto, dille il tuo desiderio, prima che sia troppo tardi!".
Pictor si spaventò e temette di vedere svanire la sua fortuna. Rapido disse la parola e si trasformò in un albero. Giacché più di una volta aveva desiderato essere albero, perché gli alberi gli apparivano così pieni di pace, di forza e di dignità.
Pictor divenne albero. Penetrò con le radici nella terra, si allungò verso l'alto, foglie e rami germogliarono dalle sue membra. Era molto contento. Con fibre assetate succhiò nelle fresche profondità della terra e con le sue foglie sventolò alto nell'azzurro. Insetti abitavano nella sua scorza, ai suoi piedi abitavano il porcospino e il coniglio, tra i suoi rami gli uccelli.
L'albero Pictor era felice e non contava gli anni che passavano. Passarono molti anni prima che si accorgesse che la sua felicità non era perfetta. Solo lentamente imparò a guardare con occhi d'albero. Finalmente poté vedere, e divenne triste.
Vide infatti che intorno a lui nel paradiso gran parte degli esseri si trasformava assai spesso, che tutto anzi scorreva in un flusso incantato di perenni trasformazioni. Vide fiori diventare pietre preziose o volarsene via come folgoranti colibrì. Vide accanto a sé più d'un albero scomparire all'improvviso: uno si era sciolto in fonte, un altro era diventato coccodrillo, un altro ancora nuotava fresco e contento, con grande godimento, come pesce allegro guizzando, nuovi giochi in nuove forme inventando. Elefanti prendevano la veste di rocce, giraffe la forma di fiori.
Lui invece, l'albero Pictor, rimaneva sempre lo stesso, non poteva più trasformarsi. Dal momento in cui capì questo, la sua felicità se ne svanì: cominciò ad invecchiare e assunse sempre più quell'aspetto stanco, serio e afflitto, che si può osservare in molti vecchi alberi. Lo si può vedere tutti i giorni anche nei cavalli, negli uccelli, negli uomini e in tutti gli esseri: quando non possiedono il dono della trasformazione, col tempo sprofondano nella tristezza e nell'abbattimento, e perdono ogni bellezza.
Un bel giorno, una fanciulla dai capelli biondi e dalla veste azzurra si perse in quella parte del paradiso. Cantando e ballando la bionda fanciulla correva tra gli alberi e prima di allora non aveva mai pensato di desiderare il dono della trasformazione.
Più di una scimmia sapiente sorrise al suo passaggio, più di un cespuglio l'accarezzò lieve con le sue propaggini, più di un albero fece cadere al suo passaggio un fiore, una noce, una mela, senza che lei vi badasse.
Quando l'albero Pictor scorse la fanciulla, lo prese un grande struggimento, un desiderio di felicità come non gli era ancora mai accaduto. E allo stesso tempo si trovò preso in una profonda meditazione, perché era come se il suo stesso sangue gli gridasse :" Ritorna in te! Ricordati in questa ora di tutta la tua vita, trovane il senso, altrimenti sarà troppo tardi e non ti sarà più data alcuna felicità". Ed egli ubbidì.
Rammentò la sua origine, i suoi anni di uomo, il suo cammino verso il paradiso, e in modo particolare quell'istante prima che si facesse albero, quell'istante meraviglioso in cui aveva avuto in mano quella pietra fatata. Allora, quando ogni trasformazione gli era aperta, la vita in lui era stata ardente come non mai! Si ricordò dell'uccello che allora aveva riso e dell'albero con la luna e il sole; lo prese il sospetto che allora avesse perso, avesse dimenticato qualcosa, e che il consiglio del serpente non era stato buono.
La fanciulla udì un fruscio tra le foglie dell'albero Pictor, alzò lo sguardo e sentì, con un improvviso dolore al cuore, nuovi pensieri, nuovi desideri, nuovi sogni muoversi dentro di lei. Attratta dalla forza sconosciuta si sedette sotto l'albero. Esso le appariva solitario, solitario e triste, e in questo bello, commovente e nobile nella sua muta tristezza; era incantata dalla canzone che sussurrava lieve la sua chioma. Si appoggiò al suo tronco ruvido, sentì l'albero rabbrividire profondamente, sentì lo stesso brivido nel proprio cuore. Il suo cuore era stranamente dolente, nel cielo della sua anima scorrevano nuvole, dai suoi occhi cadevano lentamente pesanti lacrime. Cosa stava succedendo? Perché doveva soffrire così? Perché il suo cuore voleva spaccare il petto e andare a fondersi con lui, con esso, con il bel solitario?
L'albero tremò silenzioso fin nelle radici, tanto intensamente raccoglieva in sé ogni forza vitale, proteso verso la fanciulla, in un ardente desiderio di unione. Ohimé, perché si era lasciato raggirare dal serpente per essere confinato così, per sempre, solo in un albero! Oh, come era stato cieco, come era stato stolto! Davvero allora sapeva così poco, davvero era stato così lontano dal segreto della vita? No, anche allora l'aveva oscuramente sentito e presagito, ohimé! E con dolore e profonda comprensione pensò ora all'albero che era fatto di uomo e di donna!
Venne volando un uccello, rosso e verde era l'uccello, ardito e bello , mentre descriveva nel cielo un anello. La fanciulla lo vide volare, vide cadere dal suo becco qualcosa che brillò rosso come sangue, rosso come brace, e cadde tra le verdi piante, splendette di tanta familiarità tra le verdi piante, il richiamo squillante della sua rossa luce era tanto intenso, che la fanciulla si chinò e sollevò quel rossore. Ed ecco che era un cristallo, un rubino, ed intorno ad esso non vi può essere oscurità.
Non appena la fanciulla ebbe preso la pietra fatata nella sua mano bianca, immediatamente si avverò il sogno che le aveva riempito il cuore. La bella fu presa, svanì e divenne tutt'uno con l'albero, si affacciò dal suo tronco come un robusto giovane ramo che rapido si innalzò verso di lui.
Ora tutto era a posto, il mondo era in ordine, solo ora era stato trovato il paradiso, Pictor non era più un vecchio albero intristito, ora cantava forte Pictoria. Vittoria.
Era trasformato. E poiché questa volta aveva raggiunto la vera, l'eterna trasformazione, perché da una metà era diventato un tutto, da quell'istante poté continuare a trasformarsi, tanto quanto voleva. Incessantemente il flusso fatato del divenire scorreva nelle sue vene, perennemente partecipava della creazione risorgente ad ogni ora.
Divenne capriolo, divenne pesce, divenne uomo e serpente, nuvola e uccello. In ogni forma però era intero, era un "coppia", aveva in sé luna e sole, uomo e donna, scorreva come fiume gemello per le terre, stava come stella doppia in cielo.
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Una separazione di letto e di mensa (di Salvatore Farina)
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Art by miko-cartoon.com |
quattro volte al giorno, sempre che salivo i cento e dodici gradini che mi separavano dalla folla, ma siccome quando si era su si godeva dalla finestra un magnifico panorama di tegole e di fumaioli, ci rimanevo. E poi in quattro mesi avevo fatto la conoscenza di tutti i vicini, e di solito fra i vicini d'uno scapolo ve n'è sempre qualcuno da cui dorrebbe esser lontani.
Fu là ch'io conobbi la più bizzarra coppia coniugale che si possa immaginare. Dire che il signor Sulpicio e lasignora Concetta erano la legittima metà l'uno dell'altro non sarebbe una metafora, che tra tutti e due non so bene se avessero il tanto di polpe e di muscoli necessario a formare una sola creatura umana mediocremente pasciuta. Ponendo però insieme i loro annetti passavano il secolo e mezzo un bel tratto, e se coll'immaginazione (il decoro non consentiva altrimenti) collocavo la signora Concetta ritta in piedi sul cranio del signor Sulpicio, mi conveniva rassegnarmi a veder la testa della veneranda moglie sfondare il soffitto e passare dall'altra parte. Ora il soffitto della mia camera distava dal pavimento tre metri e mezzo. Quando uno abbia sciolto tutti questi quesiti aritmetici si troverà, credo, innanzi il più preciso ritratto dei due coniugi, e li vedrà come io li vedo nel mio pensiero, lunghi, esili, allampanati, colle teste incanutite, coi volti tagliuzzati dalle rughe, cogli occhi sprofondati e lucenti. Vivevano insieme dividendo il letto e la mensa e le tribolazioni da cinquantacinque anni, e s'erano tanto guardati nel bianco dell'occhio, che a poco a poco i due volti avevano come fatto la smorfia l'uno all'altro, e se non erano i nasi, si avrebbe detto che Sulpicio e Concetta fossero fratello e sorella. Ma i nasi, non c'era verso, avevano voluto rimaner tal quali, ed io dico che di nasi più in antitesi non mi toccò mai di vederne in vita; quello del marito, incurvato a becco d'aquila, come un curioso che guarda a tutto ciò che entra in bocca, quello della signora Concetta, rivolto in su, come un prudente che si tira indietro quanto può per non dar soggezione ai buoni bocconi. Le due similitudini non le ho fatte io, ma avevano avuto origine alla mensa dei due sposi, cinquantaquattro anni e undici mesi innanzi, in un momento di collera reciproca prodotta da non so quale intingolo che sapeva di fumo.
Fu la prima nuvola del loro azzurro, ma fu un nuvolone brutto, che come dall'intingolo si era passato ai nasi,
così dai nasi si passò alle abitudini e dalle abitudini agli umori. Si finì a conchiudere che la catena del matrimonio non aveva mai appaiato due che la portassero insieme così di malavoglia; Concetta parlò di ritornare ai parenti e Sulpicio voleva che ci ritornasse subito, ma si considerò che, siccome viaggiavano per le nozze, i parenti di Concetta si trovavano a dugento miglia dal luogo della prima catastrofe matrimoniale, e si differì la cosa. La gran parola era stata pronunciata «separazione di letto e di mensa!»
Al giorno dopo Sulpicio pensò che a lui era stato affidato il verginale tesoro della sua compagna, ricordò le parole d'un commovente discorsetto che gli aveva rivolto il suocero, ricordò d'aver giurato di farla felice, ricordò un mondo di oneste ricordanze, pensò un mondo di savii pensieri e conchiuse che gli bisognava indurre Concetta a rimanere nel tetto coniugale.
Dal canto suo Concetta, donna giudiziosa se mai ve n'ebbe, s'era tirata in mente i consigli della mamma, il sì
pronunziato all'altare, l'invidia delle amiche rimaste zitellone, aveva pensato al dolore dei suoi, alla segreta gioia ed alla falsa compassione delle compagne e conchiuso che forse dopo tutto Sulpicio non era cattivo, e che se non fosse stato quel disgraziato intingolo che sapeva di fumo...
Quando Sulpicio venne col suo più bel sorriso, Concetta aveva anch'essa il suo più bello, si strinsero le mani, si abbracciarono stretti e fecero la pace. In fondo però rimaneva inteso che si davano l'uno all'altro in prova.
Quella prova era, per mille burrasche della stessa natura, giunta fino al quarto piano di via Bagutta, e durava
ancora. A volte il vicinato era messo improvvisamente sossopra da uno strillo acuto. «È Concetta!» si diceva.
Era Concetta. La disgraziata vittima, dopo di aver lanciato al suo tiranno tutti gli epiteti graziosi ammucchiati
in cinquantacinque anni di ricerche, senza riuscire a debellare il dizionario del marito, gli gettava finalmente uno
strillo formidabile. Si accorreva e si trovava che il vecchio Sulpicio si era posto in salvo giù per le scale e che Concetta gli avventava un ultimo aggettivo qualificativo dal pianerottolo.
andava a picchiare all'uscio, della signora Nina, una giovine vedova che viveva con uno zio pieno di acciacchi, amico di Sulpicio. Concetta sapeva che il suo uomo voleva un gran bene a quella giovane donna e non solo non era gelosa, ma ne invocava l'intercessione per farle fare la pace.
Press'a poco nello stesso tempo il fuggitivo marito ritornava furtivamente in casa, saliva le scale ansando e faceva irruzione nella mia camera. Sapeva che Concetta mi voleva bene come ad un figliuolo, che una mia parola poteva molto sull'animo di lei, e mi affidava il carico di ridargli la sua domestica tranquillità.
Quella prova era, per mille burrasche della stessa natura, giunta fino al quarto piano di via Bagutta, e durava
ancora. A volte il vicinato era messo improvvisamente sossopra da uno strillo acuto. «È Concetta!» si diceva.
Era Concetta. La disgraziata vittima, dopo di aver lanciato al suo tiranno tutti gli epiteti graziosi ammucchiati
in cinquantacinque anni di ricerche, senza riuscire a debellare il dizionario del marito, gli gettava finalmente uno
strillo formidabile. Si accorreva e si trovava che il vecchio Sulpicio si era posto in salvo giù per le scale e che Concetta gli avventava un ultimo aggettivo qualificativo dal pianerottolo.
I primi uffizi di buon vicinato venivano prodigati a Concetta, e si sapeva a memoria che dovevano consistere
nel lasciarla dire fino a tanto le fosse sbollita la collera. Guai a compiangerla o a dirle che non meritava la sua sorte e che suo marito era un disgraziato: anche quando pareva spenta, ripigliava fuoco come un fiammifero a protestare che il suo Sulpicio se l'era voluto lei e se l'avrebbe tenuto, che quello che era il suo Sulpicio lo sapeva lei sola e non doveva saperlo altri, e nessuno venisse ad insegnarle a leggere nel cuore del suo Sulpicio, e che essa da un pezzo lo sapeva a memoria e che in fondo lui valeva meglio di tanti.
Cessato l'impeto, e quando il pianerottolo era ridiventato solitario, la vecchia usciva di soppiatto dalle proprie camere, si guardava intorno colla testa tremante entro la larga cuffia di seta nera, scendeva due scalinate edandava a picchiare all'uscio, della signora Nina, una giovine vedova che viveva con uno zio pieno di acciacchi, amico di Sulpicio. Concetta sapeva che il suo uomo voleva un gran bene a quella giovane donna e non solo non era gelosa, ma ne invocava l'intercessione per farle fare la pace.
Press'a poco nello stesso tempo il fuggitivo marito ritornava furtivamente in casa, saliva le scale ansando e faceva irruzione nella mia camera. Sapeva che Concetta mi voleva bene come ad un figliuolo, che una mia parola poteva molto sull'animo di lei, e mi affidava il carico di ridargli la sua domestica tranquillità.
II. A me la parte di conciliatore non costava gran fatto, e non credo che alla signora Nina costasse di più.
Quando Concetta mi vedeva, non mi lasciava proferir verbo dell'imbasciata, stringeva fra i nodi di ambe le
mani la mia destra, e con un muto tentennar del capo e un levar d'occhi al soffitto, mi dimostrava tutto il suo dolore dell'accaduto, l'intenzione di ritornare nel talamo, la gratitudine per la mia buona opera. In fondo era evidente che Concetta non poteva vivere separata dal suo Sulpicio, e che pensava nemmeno Sulpicio potesse stare senza la sua Concetta. Si amavano come si erano sempre amati, alla loro guisa battagliera, ma si amavano quanto è possibile che due si amino in terra. Quando il convertito Sulpicio, il quale non aspettava altro, riappariva nel vano dell'uscio, dandosi un contegno sbadato ed indifferente per non parere commosso alla mia presenza, Concetta si ricordava non so qual rammendatura che doveva fare, e frugava in fondo alle tascaccie per trovare il ditale e l'agoraio. Allora o infilavo l'uscio, o mettevo il capo ai vetri della finestra, o mi correvano gli occhi ad un libro o ad un quadro. Sulpicio si accostava a Concetta, e Concetta si volgeva un pochino verso Sulpicio, ed entrambi un altro poco; poi vedevo colla coda dell'occhio stringersi due mani tremanti, ed avvicinarsi due volti illuminati da un magnifico sorriso, e due lagrime scendere incanalate lungo i solchi delle rughe.... Finalmente si abbracciavano stretti. Ed io continuava a guardare altrove, o mi voltavo sbadato, o dicevo che faceva un magnifico sole quando non faceva una pioggia diluviana, pensando dentro di me che quelle lagrime erano giovani e quei sorrisi in tutto degni della primavera di due volti rosati.
Una volta però la burrasca fu così tremenda, che prima che le due navi entrassero d'accordo nel porto matrimoniale ci vollero parecchie ore e molte ambascerie. La parola separazione di letto e di mensa era stata
pronunziata da tutti e due, e nissuno voleva essere il primo a disdirsi. A sgominare la vicendevole diplomazia, i due coniugi erano andati fuori di casa da due parti opposte. La domestica, una fanciullona mezzo scimunita che i due vecchi avevano raccolto, non capiva nulla di nulla, fuor che i suoi padroni erano usciti uno dopo l'altro. Mi sedetti innanzi al caminetto, attizzai il fuoco ed aspettai. Era una magnifica giornata d'inverno; il sole dardeggiava sui vetri, ed i tizzoni scoppiettavano allegri. I miei pensieri erano giocondi.
Cercavo d'indovinare quale dei due dovesse ritornare primo al letto coniugale... Quale? Concetta senza dubbio. In quella appunto udii un fruscio di abiti, mi alzai, mi volsi... e mi trovai faccia a faccia colla signora Nina, la giovane vedova del terzo piano. La signora parve meravigliata di vedermi e si mostrava imbarazzatissima, tanto più che, essendo entrata colla dimestichezza consueta, voleva non aver l'aria, d'aver commesso una indiscrezione, e si guardava intorno per vedere se qualcuno giungesse ad apprendermi indirettamente che ella usava d'un vecchio diritto. Intanto io m'era inchinato a salutarla, ed aveva fatto per parlare. Ella mi prevenne.
- La signora Concetta non è in casa? mi disse.- Nè il signor Sulpicio, aspetto l'una o l'altro.
- Ed io cercava dell'uno o dell'altra, ritornerò...
Ma l'apprendere che i due coniugi erano entrambi fuor di casa pareva inquietarla e non si muoveva.
- Se desidera attendere qui, ritornerò io...
- Grazie... ella viene probabilmente per...
- Per lo stesso motivo...
- Debbe essere uno spasimo, osservai; ma in fondo si vogliono bene.
La vedova fe' una smorfietta e non rispose.
- Quei contrasti sono per essi come i venti che separano onda da onda e le avventano, per ritornarle, passata
la burrasca, la superficie d'uno stesso mare. Non credo che due possano vivere insieme gran pezzo senza incollerire.
Assolutamente la vedova non voleva rispondere; crollò il capo e si die' a frugare impaziente nelle ceneri. Tacqui.
- Quante ore sono? mi chiese avvedendosi che il suo silenzio mi offendeva.
- Le quattro.
- È tardi; bisogna che me ne vada; ritornerò...
- Mancano veramente tredici minuti alle quattro...
La signora Nina sorrise e non se ne andò. Io non comprendeva perchè, ma il cuore scampanava a festa...
Quand'ecco venire Sulpicio e Concetta, tutti due, tenendosi per mano.
- La pace è fatta? interrogammo coll'occhio la signora Nina ed io.
- Sissignori, ci risposero i due coniugi alla stessa maniera.
- Ero venuto per salutarla, disse forte la vedova a Concetta; ora è tardi e me ne vado.
A quel riavvicinamento io sentii che il cuore picchiava più forte, e mi avvidi che la vedova arrossiva. Se ne andò; me ne andai subito dopo...E tutto il giorno pensai alla signora Nina, e la sognai tutta notte, e al giorno successivo stetti alla finestra l'intero mattino per vederla, e fui così fortunato che mi vide e si volse e la salutai, e per un mese non lasciai di andare alle stesse ore alla finestra, sempre colla stessa fortuna, e una volta ardii sorriderle, e un'altra volta ardì sorridermi...e cinque mesi e otto giorni dopo, io mi stringeva legittimamente al cuore la signora Nina... non più vedova.
- Se desidera attendere qui, ritornerò io...
- Grazie... ella viene probabilmente per...
- Per lo stesso motivo...
Così dicendo mi trassi in disparte come per invitarla ad inoltrarsi, e un minuto dopo ella era seduta al mio posto in faccia al camino, ed io non me ne andava. La signora Nina non mi conosceva, ma io conoscevo benissimo la signora Nina; molte volte, dalla mia finestra posta sopra la sua, avevo studiato a memoria il colore dei suoi capelli sperando invano che ella mi desse occasione di apprendere il colore delle sue pupille; una volta l'avevo posta in fuga tossendo, e d'allora in poi non avevo mai più tossito alla finestra. Ora quelle manine candide, che avevo visto battere la solfa sul davanzale, tenevano le molle innanzi al camino, e quel volto, che era quasi tuttavia un mistero per me, mi si mostrava aperto. Ah! la signora Nina era bella, o almeno mi piaceva tanto! Vedendo che mi stavo ritto, mi fe' un cenno cortese; sedetti; aspettammo alcuni momenti in silenzio; nessuno veniva. A poco a poco quel silenzio ci pesò, e per uscirne ella mi parlò di Sulpicio, ed io le parlai di Concetta. Quando seppe l'ufficio che io compiva dacchè avevo la fortuna d'essere il vicino dei due coniugi, la vedova sorrise lievemente. Che bel sorriso! Che magnifici denti!
- Quale disgrazia! uscì a dire poco dopo; passare cinquantacinque anni insieme senza riuscire ad intendersi!- Debbe essere uno spasimo, osservai; ma in fondo si vogliono bene.
La vedova fe' una smorfietta e non rispose.
- Quei contrasti sono per essi come i venti che separano onda da onda e le avventano, per ritornarle, passata
la burrasca, la superficie d'uno stesso mare. Non credo che due possano vivere insieme gran pezzo senza incollerire.
Assolutamente la vedova non voleva rispondere; crollò il capo e si die' a frugare impaziente nelle ceneri. Tacqui.
- Quante ore sono? mi chiese avvedendosi che il suo silenzio mi offendeva.
- Le quattro.
- È tardi; bisogna che me ne vada; ritornerò...
- Mancano veramente tredici minuti alle quattro...
La signora Nina sorrise e non se ne andò. Io non comprendeva perchè, ma il cuore scampanava a festa...
Quand'ecco venire Sulpicio e Concetta, tutti due, tenendosi per mano.
- La pace è fatta? interrogammo coll'occhio la signora Nina ed io.
- Sissignori, ci risposero i due coniugi alla stessa maniera.
- Ero venuto per salutarla, disse forte la vedova a Concetta; ora è tardi e me ne vado.
Concetta era di buon umore; le sue rughe avevano la mobilità delle grandi gioie e gli occhietti mandavano lampi.
- Meno male che il signor Carlo le ha tenuto compagnia.A quel riavvicinamento io sentii che il cuore picchiava più forte, e mi avvidi che la vedova arrossiva. Se ne andò; me ne andai subito dopo...E tutto il giorno pensai alla signora Nina, e la sognai tutta notte, e al giorno successivo stetti alla finestra l'intero mattino per vederla, e fui così fortunato che mi vide e si volse e la salutai, e per un mese non lasciai di andare alle stesse ore alla finestra, sempre colla stessa fortuna, e una volta ardii sorriderle, e un'altra volta ardì sorridermi...e cinque mesi e otto giorni dopo, io mi stringeva legittimamente al cuore la signora Nina... non più vedova.
III. Eravamo felici. Abitavamo una casicciola molto lontana dal chiasso e dalla baraonda cittadina; le nostre
finestre non guardavano in casa d'incomodi vicini; il sole ci veniva a trovare ogni giorno all'alba e ci lasciava dopo mezzodì, e la luce dava colori di festa ai nostri mobili nuovi. Il vecchio zio di Nina non aveva voluto assolutamente, come egli diceva, porre i suoi acciacchi in comune per fare una casa sola, e se n'era andato a stare con una sorella la quale viveva in villa. La compagnia dei nostri sogni, dei propositi nostri, bastava a tutto; qualunque altro sarebbe stato un importuno. Le nostre stanze color di rosa erano popolate di care fantasie dello stesso colore. L'avvenire ci appariva nei sogni, e ne facevano di così leggiadri! Bisogna dire che Nina aveva una rara squisitezza di maniere, un sorriso dolcissimo, uno sguardo sereno come un raggio di luna, una voce armoniosa come una parola di conforto, e una tal maniera vezzosa di appressarmisi, di pormi le mani sugli omeri e dirmi «ti voglio bene» senza dirmi nulla, che io avrei passato le ore intere a divorarmela cogli occhi. Aveva un solo difetto: nell'andare da una stanza all'altra si tirava dietro gli usci con violenza. Molte volte, strappato alle mie fantasticherie dallo sbattere d'una porta, avrei ceduto ad un movimento dispettoso se subito dopo non mi fosse apparso il suo viso rosato. Ciò nondimeno il cuore continuava a trotterellare allegro e non mi sarebbe riuscito di fargli prendere un'andatura più ragionevole. Bisogna anche dire che io era per Nina un marito poco men che perfetto. Non la lasciavo sola mai, o più raramente e più brevemente che poteva, non la contraddiceva in nulla, prevenivo i suoi desideri, non le dicevo che parole buone, facevo cento fanciullaggini per tenerla di buon umore. Avevo però anch'io un diffettaccio: mi distraeva orribilmente; a certi momenti, per tener dietro ad una sciocca fantasia, non mi accorgevo che ella, sorridendo, mi domandava un sorriso, o rispondevo con un cenno serio del capo ad una proposta burlesca. Certo la sorte non accoppia due colpe così nere per dare l'immagine della pace coniugale. Venne il giorno in cui io mi mostrai più distratto del solito, ed ella sbattè gli usci più forte. Mi sfuggì un oh! ed ella l'intese, ed io me ne pentii. Inutilmente. Un'altra volta Nina mi lasciò pensoso, camminando sulle punte dei piedi, e chiuse l'uscio con mille precauzioni per non far rumore... Il frastuono delle fucine d'averno non mi avrebbe fatto dare un balzo più ratto dalla seggiola. La raggiunsi, l'abbracciai, e ridemmo insieme di gran cuore. Ma il ghiaccio era rotto; ci avevamo detto in viso il pensiero nostro: non eravamo perfetti! Per quanti sforzi facesse, Nina non riusciva a correggersi; solo quando aveva peccato, pigliava una certa aria tra il dolente e lo scherzoso che la faceva più bella. Quanto a me avevo un gran scrollare il capo, o spalancar tanto d'occhi quando ero colto col cervello in processione - non ci guadagnavo nulla, assolutamente.
La luna di miele durava da molte lune, senza che la più lieve ombra avesse mai oscurato i nostri volti innamorati. Fu un giorno, un brutto giorno di quel dispettoso mese di luglio, in cui il sole è così beffardo e il caldo così crudele... Ella giura d'essere stata la prima a dirmi: «vorrei un po' sapere a che pensi sempre col capo nelle nuvole, vorrei proprio saperlo...;» ma non le credete; la prima offesa uscì proprio dalle mie labbra in forma d'un piccolo sacramento che non mi riesci d'afferrare coi denti se non quand'era venuto fuori più di mezzo. Comunque sia, un di noi rispose con una lieve impertinenza, e l'altro con una meno lieve, e poi con un'ironia, e con un'altra ironia, e infine Nina colle lagrime agli occhi ed io col cuore gonfio. Un'altra volta lo stesso esordio ci portò alla stessa conclusione, ed un'altra più in là.
- Questa vita non è più sopportabile, disse lei.- Davvero! dissi io per farle dispetto.
- Davvero! Ah! davvero! Eh! lo sapeva io che sei già stanco di me: è quasi un anno che sei alla catena.
- Dieci mesi, risposi.
- Che ti sono parsi dieci anni; me ne sono accorta già da un pezzo; la nostra felicità ha già troppo durato; ah!
come sono disgraziata! Finirai per odiarmi, se pure non mi odii fin d'ora; ma finirò anch'io per odiarti.
Mi struggevo di voglia di pigliarmela fra le braccia e di portarla in giro per le stanze, lei e tutta la sua collera
insieme, sino a tanto che dicesse: basta ridendo; mi veniva voglia di buttarmele ai piedi ginocchioni e dire le mie orazioni maritali, di allacciarle il collo e rubarle tanti baci finchè lo sgomento me l'avesse rifatta docile - mi venivano in mente tutti i propositi buoni che possono venire alla miglior pasta di marito. La guardai sott'occhi, vide il mio sguardo e mi volse le spalle, mossi un passo verso di lei, ed ella via in un'altra camera... ed io dispettoso, via dalla parte opposta, e giù per le scale, pieno di rimorsi già prima di porre in atto la terribile vendetta. Gironzai un pezzo, non mi potendo staccare dal vicinato e volgendomi ogni tanto a guardare la casicciola dov'era la mia felicità. Mi tornavano al pensiero Concetta e Sulpicio, i buoni amici d'una volta, e dicevo a me stesso che io non aveva chi compiesse presso la mia Nina i buoni uffizii di paciere, e che dopo tutto non avrei patito di affidarli a chicchessia. Pensavo: «È la prima volta, ma chi sa se non faremo più! Bisogna ritornare a lei, toglierla quanto è possibile alla sua pena, e confortarla, e dirle che non avremo più a bisticciarci mai... Ma se, invece di ascoltarmi benignamente, fa la ritrosa?... Ah! che non darei perchè alla prima parola buona rispondesse con un bacio saporito! E non se ne parlasse più e si piangesse e si ridesse insieme!» Tutte queste riflessioni, mi portarono due o tre volte sulla soglia di casa, ed altrettante me ne ritrassero; finalmente mi riuscì di rompere il fascino, infilai il portone d'un balzo, salii gli scalini a quattro a quattro, ed in un attimo fui innanzi a lei che mi era venuta incontro lagrimosa sul pianerottolo. Nascondeva il viso fra le mani e non mi diceva nulla. Le cinsi il corpo con un braccio e la trassi nel salotto; me la feci sedere sulle ginocchia, le scostai con dolce violenza le mani dagli occhi, posi il mio volto sotto al suo, e le chiesi perdono. Ma invece di perdonarmi scoppiò in un altro singhiozzo, e mi buttò le braccia al collo, ed appoggiò la testina sul mio omero. Mi batteva il cuore forte; gli atti di Nina esprimevano una disgrazia. Che era dunque avvenuto nella mia assenza? Di nuovo carezze di baci e di parole, e cento interrogazioni paurose e finalmente un altro singhiozzo più forte:
- È morta!
- Chi?
- Concetta, la povera Concetta!
Ammutolii. Se devo dire il vero, non me ne doleva moltissimo; la buona donna trotterellava giù dalla settantina da un pezzo, e il Paradiso aveva aspettato molto per avere una pergamena di più; ma rispettavo la sensibilità di Nina. Quando ebbe cessato di lagrimare, tentennò il capo e mi disse con un filo di voce melanconica:
- Eccoli separati di letto e di mensa!
- E chi ti ha dato questa notizia?...
- Un'amica che è venuta a trovarmi; la povera Concetta è mancata ieri l'altro quasi improvvisamente.
- E Sulpicio?
- È disperato; non dice parola, sembra sbigottito.
- Bisognerà andare a trovarlo,
- Amico mio, vacci subito.
- Chi?
- Concetta, la povera Concetta!
Ammutolii. Se devo dire il vero, non me ne doleva moltissimo; la buona donna trotterellava giù dalla settantina da un pezzo, e il Paradiso aveva aspettato molto per avere una pergamena di più; ma rispettavo la sensibilità di Nina. Quando ebbe cessato di lagrimare, tentennò il capo e mi disse con un filo di voce melanconica:
- Eccoli separati di letto e di mensa!
- E chi ti ha dato questa notizia?...
- Un'amica che è venuta a trovarmi; la povera Concetta è mancata ieri l'altro quasi improvvisamente.
- E Sulpicio?
- È disperato; non dice parola, sembra sbigottito.
- Bisognerà andare a trovarlo,
- Amico mio, vacci subito.
Vi andai. Oimè! Il povero cuore del vecchio non aveva potuto resistere agli affanni della solitudine, e nella notte, poche ore dopo che gli fu portata via la sua compagna, s'era posto nel vedovo letto colla sicurezza di non vedere un altro mattino. Il cadaverico volto pareva sorridermi tristamente e dirmi che neppure la morte li aveva voluti divisi. Ritornando a casa col cuore mesto, ma d'una mestizia dolce che mi faceva bene, non volli dire nulla alla mia compagna. La quale seppe la cosa da altri alla mia presenza, e come fummo soli mi si strinse paurosamente al petto...
-Carlo!- Nina!
Levò gli occhi come per leggermi nel pensiero, e mormorò lentamente queste parole:
-Anche noi, non è vero?
↧
Favola di amore e follia
La Follia decise di invitare i suoi amici a prendere un caffè da lei.
Dopo il caffè, la Follia propose:
'Si gioca a nascondino?'
'Nascondino? Che cos'è?' - domandò la Curiosità.
'Nascondino è un gioco. Io conto fino a cento e voi vi nascondete.
Quando avrò terminato di contare, cercherò e il primo che troverò sarà il prossimo a contare.'
Accettarono tutti ad eccezione della Paura e della Pigrizia.
'1,2,3...' - la Follia cominciò a contare.
La Fretta si nascose per prima, dove le capitò.
La Timidezza, impacciata come sempre, si nascose in un gruppo d'alberi.
La Gioia corse in mezzo al giardino.
La Tristezza cominciò a piangere, perché non trovava un angolo adatto per nascondersi.
L' Invidia si unì al Trionfo e si nascose accanto a lui dietro un grande masso.
La Follia continuava a contare mentre i suoi amici si nascondevano.
La Disperazione era disperata vedendo che la Follia era già a novantanove.
'CENTO!' - gridòla Follia- 'Comincerò a cercare.'
La prima ad essere trovata fu la Curiosità, poiché non aveva potuto impedirsi di uscire per vedere chi sarebbe stato il primo ad essere scoperto.
Guardando da una parte, la Follia vide il Dubbio sopra un recinto che non sapeva da quale lato si sarebbe meglio nascosto.
E così di seguito scoprì la Gioia, la Tristezza, la Timidezza.
Quando tutti erano riuniti, la Curiosità domandò: 'Dov'è l'Amore?'.
Nessuno l'aveva visto.
La Follia cominciò a cercarlo.
Cercò in cima ad una montagna, nei fiumi sotto le rocce.
Ma non trovò l'Amore.
Cercando da tutte le parti, la Follia vide un rosaio, prese un pezzo di legno e cominciò a cercare tra i rami, allorché ad un tratto sentì un grido.
Era l'Amore, che gridava perché una spina gli aveva forato un occhio.
La Follia non sapeva che cosa fare.
Si scusò, implorò l'Amore per avere il suo perdono e arrivò fino a promettergli di seguirlo per sempre.
L' Amore accettò le scuse.
Ancora oggi, quando si cerca l'Amore non lo si trova, e solo i folli si ostinano a cercarlo nonostante tutto ma soprattutto: l'Amore è cieco e la Follia lo accompagna sempre.
↧
I giorni della merla
Racconta la leggenda che un tempo i merli erano tutti bianchi: così comincia la leggenda della Merla che, nelle sue varie versioni, segnala uno dei dì d'la marca, dei giorni di marca, giorni indicanti alla comunità rurale la posizione all'interno della Ruota dell'Anno.
Particolarmente diffusa nella Pianura Padana, lungo il Po, la leggenda del merlo appare anche in una citazione dantesca sempre in riferimento alla morale della leggenda che vede l'uccello ingannato dal clima rigido di gennaio.
Il merlo, Turdus merula, è un uccello che in Italia tende a non migrare rimanendo in loco per tutto l'inverno.
Anticipando le prime avvisaglie di primavera, il canto del merlo può essere ingannatorio: non sempre infatti segnala che il caldo si stia realmente avvicinando.
Un proverbio romagnolo infatti ricorda: Merlo, di marzo non cantare, che il becco ti si potrebbe ghiacciare. Lascia che canti la tordella, che lei non ha paura di nessuno(Mèral, ‘d mêrz no’ cantê’, che e’ bëc u t’ s’ po’ agiazê. Lëssa ch’e’ chénta e’ ragiôn che lo u n’ha pavura d’inciôn).
A Bologna dicono Quand canta al mérel, a san fóra dl’invéren (Quando canta il merlo, siamo fuori dell’inverno).
I giorni della merla sono, secondo la tradizione, gli ultimi tre giorni di gennaio: il 29, il 30 e il 31 (benché per alcuni siano il 30 e 31 gennaio e il 1° febbraio).
Sono considerati i giorni più freddi dell'inverno, ma nell'eventualità che non fossero proprio freddi indicherebbero in quest'occasione che la Primavera arriverà tardi.
In questo senso ricordano molto l'uso della fase della luna e l'uscita dell'orso dalla tana come metodi per prevedere il clima: previsione che va fatta pochi giorni dopo ai Giorni della Merla, ovvero alla Candelora.
La leggenda dei tre giorni della merla si perde nell'onda del tempo.
Una storiella che ha infinite varianti da posto a posto. Una cosa é però in comune a tutti: la data. I tre ultimi giorni di gennaio, considerati appunto i più freddi nonché una specie di cartina di tornasole, dato che in base a come si presenta il tempo gli esperti sanno trarre indicazioni per come sarà il clima dell'anno.
Non conta che qualche metereologo si sia affannato a dimostrare che non tutti gli anni é così, che anzi le medie dicono che c'é qualche altro giorno più freddo. La tradizione non si é spenta. O meglio, la tradizione non si era spenta.
Una versione...
Era un inverno molto, molto freddo. Il mese di Gennaio, quell’anno, si era messo davvero d’impegno per tener fede alla sua fama di mese gelido e ventoso. La neve era alta, ed uno strato di ghiaccio ricopriva le fontane, i ruscelli, i laghetti...per la gioia dei bambini, che potevano divertirsi a pattinare, slittare, scivolare su quelle superfici a specchio che riflettevano i raggi di un pallido sole.
Perfino il fuoco, acceso in ogni piccola e grande casa del paese, sembrava non scaldare abbastanza; nelle camere e nelle soffitte, qualche volta, al mattino si scopriva che il gelo della notte aveva perfino fatto ghiacciare l’acqua nei secchi e nei lavandini.
La gente camminava intirizzita, usciva il meno possibile, cercava di impegnarsi nei lavori più faticosi anche per scaldarsi un po’. I più fortunati potevano permettersi, nelle sere buie, di condividere un sorso di Glühwein con la famiglia o con gli amici, nel tepore della casa. "Finirà, anche questo Gennaio..." dicevano tutti, ed aspettavano con ansia il mese di Febbraio: certo, l’inverno non sarebbe finito subito, ma sarebbe diventato più mite, meno pungente, e tutti avrebbero cominciato a sentire l’avvicinarsi della primavera.
Non solo gli uomini, ma anche gli animali stavano passando giorni difficili, con tutto quel freddo e quel ghiaccio. Era un problema procurarsi il cibo, ripararsi dal vento, trovare un poco di sollievo...si sa, gli animali non sono in grado di accendere fuochi, e non sono capaci di fare il Glühwein!
Una merla, irrequieta e dispettosa per carattere, si sentiva particolarmente agitata e non vedeva l’ora che il freddo finisse...imprecando contro il mese di Gennaio, decise un bel giorno di andarlo a trovare, di dirgli tutto quello che pensava di lui e di prenderlo un po’ in giro perché ormai stava per finire. A quei tempi, infatti, Gennaio era il mese più corto dell’anno ed aveva solo ventotto giorni.
Volando, volando, riuscì a raggiungere l’alta montagna dove abitava quel mese così poco gentile. Qui giunta, la merla (che aveva un bel piumaggio nero lucido ed un becco giallo molto brillante, come il suo compagno) cominciò a sfottere il mese di Gennaio: "Ci hai fatto soffrire, con il tuo ghiaccio ed il tuo vento, eh? Ti sei divertito? Ci hai fatto tremare di freddo e patire la fame per tutti questi giorni, ma oggi è il 28, è l’ultimo giorno! Hai finito di perseguitarci, per quest’anno, adesso arriva Febbraio e potremo respirare....alla fine, te ne devi andare anche tu!"
Il mese di Gennaio, offeso e contrariato, sembrò non interessarsi più di tanto ai discorsi di quell’uccello fastidioso, non rispose subito, ma aspettò con calma che la merla si sfogasse e, alla fine, l’ammonì: "Stai attenta, perché non è detta l’ultima parola!". Sicura del fatto suo, la merla non ci badò e spiccò il volo per tornare al suo paese ed aspettare l’arrivo del mite Febbraio.
Ma Gennaio non si diede per vinto: irritato dal comportamento della merla, andò subito a trovare il suo vicino di casa, Febbraio, e tanto disse e tanto fece da convincerlo a regalargli tre giorni: quelli che sarebbero stati i primi tre giorni di Febbraio diventarono gli ultimi di Gennaio. Per dispetto a chi si era preso gioco di lui, Gennaio durante quei tre giorni ce la mise tutta per vendicarsi. Il freddo fu talmente intenso che perfino il fiato si ghiacciava nell’aria. La merla, pentita della sua presunzione, non poté fare altro che cercare un po’ di sollievo vicino ad un camino fumante. Passò tutti i tre giorni vicino a quel camino e riuscì a difendersi dal freddo; prese però tanto di quel fumo che, dopo quei tre giorni, tutte le sue piume e perfino il suo becco erano diventati grigi, e non tornarono mai più come prima.
Per questo, da allora in poi, il mese di Febbraio è diventato il più corto dell’anno, la merla è di color grigio fumo (mentre il merlo è sempre nero con il becco giallo) e gli ultimi tre giorni di Gennaio, i più freddi di tutto l’inverno, sono chiamati "i giorni della merla"
Di Enrico Trojero.
Un'altra versione...
La leggenda dei tre giorni della merla si perde nell'onda del tempo. Sappiamo solo che erano gli ultimi tre giorni di gennaio, il 29, 30 e 31, e in quei dì capitò a Milano un inverno molto rigido. La neve aveva steso un candido tappeto su tutte le strade e i tetti della città.
I protagonisti di questa storia sono un merlo, una merla e i loro tre figlioletti. Erano venuti in città sul finire dell'estate e avevano sistemato il loro rifugio su un alto albero nel cortile di un palazzo situato in Porta Nuova. Poi, per l'inverno, avevano trovato casa sotto una gronda al riparo dalla neve che in quell'anno era particolarmente abbondante. Il gelo rendeva difficile trovare le provvigioni per sfamarsi; il merlo volava da mattina a sera in cerca di becchime per la sua famiglia e perlustrava invano tutti i giardini, i cortili e i balconi dei dintorni. La neve copriva ogni briciola.
Un giorno il merlo decise di volare ai confini di quella nevicata, per trovare un rifugio più mite per la sua famiglia. Intanto continuava a nevicare. La merla, per proteggere i merlottini intirizziti dal freddo, spostò il nido su un tetto vicino, dove fumava un comignolo da cui proveniva un po' di tepore. Tre giorni durò il freddo. E tre giorni stette via il merlo. Quando tornò indietro, quasi non riconosceva più la consorte e i figlioletti: erano diventati tutti neri per il fumo che emanava il camino. Nel primo dì di febbraio comparve finalmente un pallido sole e uscirono tutti dal nido invernale; anche il capofamiglia si era scurito a contatto con la fuliggine. Da allora i merli nacquero tutti neri; i merli bianchi diventarono un'eccezione di favola. Gli ultimi tre giorni di gennaio, di solito i più freddi, furono detti i «trii dì de la merla» per ricordare l'avventura di questa famigliola di merli.
Da paroledautore.net
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San Valentino
La più antica notizia di S.Valentino è in un documento ufficiale della Chiesa dei secc.V-VI dove compare il suo anniversario di morte. Ancora nel sec. VIII un altro documento ci narra alcuni particolari del martirio: la tortura, la decapitazione notturna, la sepoltura ad opera dei discepoli Proculo, Efebo e Apollonio, successivo martirio di questi e loro sepoltura. Altri testi del sec. VI, raccontano che S.Valentino, cittadino e vescovo di Terni dal 197, divenuto famoso per la santità della sua vita, per la carità ed umiltà, per lo zelante apostolato e per i miracoli che fece, venne invitato a Roma da un certo Cratone, oratore greco e latino, perché gli guarisse il figlio infermo da alcuni anni. Guarito il giovane, lo convertì al cristianesimo insieme alla famiglia ed ai greci studiosi di lettere latine Proculo, Efebo e Apollonio, insieme al figlio del Prefetto della città. Imprigionato sotto l’Imperatore Aureliano fu decollato a Roma. Era il 14 febbraio 273. Il suo corpo fu trasportato a Terni al LXIII miglio della Via Flaminia.
IL CULTO
S.Valentino fu sepolto in un’area cimiteriale nei pressi dell’attuale Basilica. E’ sicuro che quel cimitero già esisteva in età pagana. Da questa zona provengono alcuni reperti le più antiche risalgono ai secc. IV-V. Si La prima basilica fu costruita nel sec.IV la collocazione dell’edificio, fu fuori delle mura della città e in area cimiteriale sopra la tomba del martire.
Nel 1605 il vescovo Giovanni Antonio Onorati, ottenuto il permesso da papa Paolo V, fece iniziare le ricerche del corpo del Santo. Erano partite da tempo anche a Roma le ricerche dei primi martiri della Chiesa e per autenticare la loro esistenza e per accrescerne la venerazione. Il corpo di S.Valentino fu presto rinvenuto in una cassa di piombo contenuta entro un’urna di marmo rozza esternamente ma all’interno intagliata con rilievi. La testa era separata dal busto a conferma della morte avvenuta per decapitazione. Fu portata subito in Cattedrale. Nessuno in città voleva che il corpo del loro martire riposasse nella chiesa madre, poiché le reliquie dovevano essere venerate là dove erano state sepolte. Così si decise di ricostruire una nuova Basilica.
I lavori per la costruzione della Basilica iniziarono nel 1606 e durarono alcuni anni ma già dal 1609 questa poté essere officiata dai PP.Carmelitani, chiamati a custodirla. Nel 1618 il corpo del santo vescovo e martire venne solennemente riportato nella sua Basilica.
La festa del vescovo e martire Valentino si riallaccia agli antichi festeggiamenti di Greci, Italici e Romani che si tenevano il 15 febbraio in onore del dio Pane, Fauno e Luperco. Questi festeggiamenti erano legati alla purificazione dei campi e ai riti di fecondità.
Per gli antichi Romani il mese di Febbraio era considerato il periodo in cui ci si preparava all'arrivo della primavera, considerata la stagione della rinascita. Si iniziavano i riti della purificazione: le case venivano pulite, vi si spargeva il sale ed una particolare farina.Verso la metà del mese iniziavano le celebrazioni dei Lupercali (dei che tenevano i lupi lontano dai campi coltivati). Fin dal quarto secolo A. C. i romani pagani rendevano omaggio, con un singolare rito annuale, il dio Lupercus. I Luperici, l'ordine di sacerdoti addetti a questo culto, si recavano alla grotta in cui, secondo la leggenda, la lupa aveva allattato Romolo e Remo e qui compivano i sacrifici propiziatori. Lungo le strade della città veniva sparso il sangue di alcuni animali, come segno di fertilità; ma il vero e proprio rituale consisteva in una specie di lotteria dell'amore. I nomi delle donne e degli uomini che adoravano questo Dio venivano messi in un'urna e opportunamente mescolati. Quindi un bambino sceglieva a caso alcune coppie che per un intero anno avrebbero vissuto in intimità, affinché il rito della fertilità fosse concluso. L'anno successivo sarebbe poi ricominciato nuovamente con altre coppie.
I padri precursori della Chiesa, determinati a mettere fine a questa pratica licenziosa, crearono un santo “degli innamorati” per sostituire l’immorale Lupercus. . La Chiesa cristianizzò quel rito pagano della fecondità anticipandolo al giorno 14 di febbraio attribuendo al martire ternano la capacità di proteggere i fidanzati e gli innamorati indirizzati al matrimonio e ad un’unione allietata dai figli. Nel 496 d.C Papa Gelasio annullò questa festa pagana ed iniziò il culto di San ValentinoDa questa vicenda sorsero alcune leggende.
Leggenda dell'Amore Sublime
Questa leggenda narra di un giovane centurione romano di nome Sabino che, passeggiando per una piazza di Terni, vide una bella ragazza di nome Serapia e se ne innamorò follemente.
Sabino chiese ai genitori di Serapia di poterla sposare ma ricevette un secco rifiuto: Sabino era pagano mentre la famiglia di Serapia era di religione cristiana. Per superare questo ostacolo, la bella Serapia suggerì al suo amato di andare dal loro Vescovo Valentino per avvicinarsi alla religione della sua famiglia e
ricevere il battesimo, cosa che lui fece in nome del suo amore.
Purtroppo, proprio mentre si preparavano i festeggiamenti per il battesimo di Sabino ( e per le prossime nozze), Serapia si ammalò di tisi. Valentino fu chiamato al capezzale della ragazza oramai moribonda. Sabino supplicò Valentino affinché non fosse separato dalla sua amata: la vita senza di lei sarebbe stata solo una lunga sofferenza. Valentino battezzò il giovane, ed unì i due in matrimonio e mentre levò le mani in alto per la benedizione, un sonno beatificante avvolse quei due cuori per l'eternità.
Leggenda della Rosa della Riconciliazione
Un giorno San Valentino sentì passare, al di là del suo giardino, due giovani fidanzati che stavano litigando. Decise di andare loro incontro con in mano una magnifica rosa. Regalò la rosa ai due fidanzati e li pregò di riconciliarsi stringendo insieme il gambo della rosa, facendo attenzione a non pungersi e pregando affinché il Signore mantenesse vivo in eterno il loro amore.
Qualche tempo dopo la giovane coppia tornò da lui per invocare la benedizione del loro matrimonio.
La storia si diffuse e gli abitanti iniziarono ad andare in pellegrinaggio dal vescovo di Terni il 14 di ogni mese.
Il 14 di ogni mese diventò così il giorno dedicato alle benedizioni, ma la data è stata ristretta al solo mese di febbraio perché in quel giorno del 273 San Valentino morì.
Leggenda dei Bambini
San Valentino possedeva un grande giardino pieno di magnifici fiori dove permetteva a tutti i bambini di giocare. Si affacciava sovente dalla sua finestra per sorvegliarli e per rallegrarsi nel vederli giocare.
Quando venive sera, scendeva in giardino e tutti i bambini lo circondavano con affetto ed allegria. Dopo aver dato loro la benedizione regalava a ciascuno di loro un fiore raccomandando di portarlo alle loro mamme: in questo modo otteneva la certezza che sarebbero tornati a casa presto e che avrebbero alimentato il rispetto e l’amore nei confronti dei genitori.
Da questa leggenda deriva l'usanza di donare dei piccoli regali alle persone a cui vogliamo bene.
Leggenda dei Colombini
Il sacerdote Valentino possedeva un grande giardino che nelle ore libere dall'apostolato coltivava con le proprie mani. Tutti i giorni permetteva ai bambini di giocare nel suo giardino, raccomandando che non avessero fatto danni, perché poi la sera avrebbe egli regalato a ciascuno un fiore da portare a casa. Un giorno, però, vennero dei soldati e imprigionarono Valentino perchè il re lo aveva condannato al carcere a vita. I bambini piansero tanto. Valentino, stando in carcere pensava a loro, e al fatto che non avrebbero più avuto un luogo sicuro dove giocare. Ci pensò il Signore. Fece fuggire dalla gabbia del distratto custode due dei piccioni viaggiatori che Valentino teneva in giardino. Questi piccioni, guidati da un misterioso istinto, trovarono il carcere dove stava chiuso il loro santo padrone. Si posarono sulle sbarre della sua finestra e presero a tubare fortemente. Valentino li riconobbe, li prese e li accarezzò. Poi legò al collo di uno un sacchetto fatto a cuoricino con dentro un biglietto, ed al collo dell'altro legò una chiavetta. Quando i due piccioni fecero ritorno furono accolti con grande gioia. Le persone si accorsero di quello che portavano e riconobbero subito la chiavetta: era quella del giardino di Valentino. I bambini ed i loro familiari si trovavano fuori del giardino quando il custode lesse il contenuto del bigliettino. C'era scritto:"A tutti i bambini che amo? dal vostro Valentino".
Le più famose storie d’amore spesso non hanno lieto fine Decapitazioni, martiri, miracoli: altro che rose, la storia di S. Valentino è degna di Shakespeare, che non a caso ne parla in un sonetto:
Diman ricorre San Valentino,
io, che son verginella,
vengo per tempo alla sua finestra
per esser la sua bella .
Sorse ei dal letto, mise il farsetto,
l’uscio di stanza aprì;
entrò la vergine, che mai più vergine di fuori non uscì.
Interrotta per un attimo dal re Ofelia riprende:
O buon Gesù, misericordia,
oibò, e che vergogna!
Lo fanno i giovani, se ci si trovano;
perdinci, abbiam rampogna!
Dice la tosa, mi volevi sposa
prima di stendermi su dorso.
GLI EVENTI
SAN VALENTINO NEL MONDO
io, che son verginella,
vengo per tempo alla sua finestra
per esser la sua bella .
Sorse ei dal letto, mise il farsetto,
l’uscio di stanza aprì;
entrò la vergine, che mai più vergine di fuori non uscì.
Interrotta per un attimo dal re Ofelia riprende:
O buon Gesù, misericordia,
oibò, e che vergogna!
Lo fanno i giovani, se ci si trovano;
perdinci, abbiam rampogna!
Dice la tosa, mi volevi sposa
prima di stendermi su dorso.
GLI EVENTI
A Terni è sorta la “Fondazione S.Valentino”, che cura il culto del Santo durante l’intero mese di febbraio:vi sono programmate grandi iniziative di fede e di cultura, di arte e di scienza, di spettacolo e di divertimento.
SAN VALENTINO NEL MONDO
- San Valentino in Germania
In Germania San Valentino si festeggia più o meno come in Italia: gli innamorati infatti scrivono bigliettini ed acquistando piccoli regali e fiori per il proprio partner. Anche i tedeschi si concedono cene a lume di candela con musica soft per celebrare il proprio amore.
- San Valentino in Olanda
In Olanda gli innamorati si scambiano doni come testimonianza del proprio more, ma alcune persone, come in altri paesi come l'Inghilterra, spediscono biglietti e decidono di non rivelare la propria identità rimanendo anonimi. Uno dei doni più diffusi per San Valentino è un cuore di liquirizia.
- San Valentino in Inghilterra
- San Valentino in Spagna
- San Valentino negli Stati Uniti
- San Valentino in Africa
- San Valentino in Arabia Saudita
Nelle nazioni fondamentaliste, un’apposita polizia religiosa impedisce che i negozi vendano souvenir e doni di San Valentino e che la ricorrenza venga promossa sui mass-media.
Nel 2008, i festeggiamenti di San Valentino sono stati ufficialmente banditi in Arabia Saudita.
Anche in paesi come l’Iran ed il Pakistan le forze conservatrici sparano a zero su questa ricorrenza importata, ma i giovani non la disdegnano… privatamente, comunque.
- San Valentino in India
- San Valentino in Giappone
In Giappone la festa di San Valentino viene celebrata seguendo un preciso rituale: il 14 febbraio le ragazze offrono del cioccolato (industriale o fatto a mano, solitamente scuro) al ragazzo che amano come strumento di comunicazione non verbale. Se costui accetta l'amore della ragazza, può ricambiare con un altro gesto non verbale che consiste nel consegnare a sua volta un dono alla ragazza il 14 marzo, il white day. Solitamente il dono che viene consegnato per il white day consiste in un pacchetto di cioccolato bianco (ma anche biscotti, dolci in genere o anche peluche, gioielli e biancheria intima, l'importante è che sia di colore bianco o chiaro), ed è più costoso di quello di San Valentino: si usa infatti l'espressione sanbai gaeshi (三倍返し? "tre volte al ritorno") per indicare che il regalo dell'uomo deve avere un valore doppio o triplo di quello della donna. Come per il cioccolato di San Valentino, anche per il white day esistono tre categorie di doni:
honmei-choko (本命チョコ? "cioccolato del favorito") che si consegna alla persona amata
tomo-choko (友チョコ? "cioccolato dell'amico") regalato agli amici
giri-choko (義理チョコ? "cioccolato d'obbligo"), dato per convenzione sociale a colleghi e compagni
Il white day è stato introdotto nel 1978 dal Zenkoku ame kashi kōgyō kyōdō kumiai (全国飴菓子工業協同組合? "Associazione nazionale delle industrie dolciarie") come risposta al giorno di San Valentino. L'idea rappresenta un'estensione sull'intero territorio nazionale del marshmallow day, inventato nel 1977 dalla Ishimura manseido (石村萬盛堂?), un'azienda confettiera di Fukuoka che il 14 marzo vendeva agli uomini confezioni regalo di marshmallow da usare come risposta al cioccolato del 14 febbraio.
In tempi più recenti il rito della consegna del cioccolato viene effettuato non solo dalle ragazze (che sono ancora la maggioranza), ma in generale da chi prova un sentimento nei confronti di qualcun altro: è un modo non verbale per confessare il proprio amore, amicizia o altro in base al contesto.
- San Valentino in Corea del Sud
- San Valentino in Galles
- San Valentino in Finlandia e in Estonia,
Il 14 febbraio si chiama "Il giorno degli amici": si ricordano tutti gli amici, e non solo gli innamorati.
- San Valentino in Slovenia
Il 14 febbraio è il giorno in cui si comincia a lavorare nei campi, mentre la tradizionale festa degli innamorati è San Gregorio, il 12 marzo.
- San Valentino in Romania
La festa degli innamorati si chiama Dragobete, e cade il 24 febbraio. Dragobete è nella mitologia rumena il figlio di Baba Dochia, che rappresenta a sua volta l'impazienza degli uomini nell'attesa dell'arrivo della primavera.
- San Valentino in Sud America
La festa è simile a quella nordamericana, ma include sia gli innamorati che gli amici. Si chiama infatti "Día del Amor y la Amistad".
- San valentino in Colombia
- San Valentino in Brasile,
San Valentino è completamente ignorato per via dell'importanza maggiore assunta dal Carnevale, che può cadere proprio in quel periodo. La festa degli innamorati si festeggia invece il 12 giugno, il giorno prima di Sant'Antonio, in cui le donne nubili svolgono riti per trovare un compagno.
- San Valentino in Cina
In Cina, è l'uomo a comprare fiori e cioccolatini alla donna. Esiste però una tradizione più antica chiamata "La notte dei sette" (Qi Xi), che cade nel settimo giorno del settimo mese del calendario cinese. Ovvero, ad Agosto. Durante questa festa, le giovani nubili mostrano pubblicamente le loro arti domestiche nella speranza di trovare un compagno.
- San Valentino in Iran
La festa degli innamorati si chiama "Sepandarmazgan", e si festeggia il 29 Bahman del calendario Jalali. Cioè, il 17 febbraio. Il governo preferisce che non venga festeggiato invece San Valentino, ma pare che gli iraniani più giovani lo facciano ugualmente, scambiandosi doni e ciocciolatini di nascosto.
Fonti:
amando.it
donnamoderna.com
wikipedia.org
guidesupereva.it
diocesi.terni.it
guidesupereva.it
diocesi.terni.it
per San Valentino trovi anche:
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Carnevale
Carnevale, scherzi e balli
con le maschere e gli sballi.
Ecco arriva Pulcinella
sotto braccio con Brighella.
Li raggiunge Pantalone
col suo amico Balanzone,
Beppe Nappa golosone
si presenta col torrone.
Arlecchino e Colombina,
bella coppia birichina.
Meneghino e Rugantino
vanno insieme nel trenino.
Gianduia, gianduiato
preferisce il cioccolato.
Corre forte Scaramuccia
e ci casca sulla buccia.
Sfortunato Stenterello
senza soldi nel cestello.
Viva le maschere italiane
son le più belle del reame.
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Il girotondo delle maschere (G. Gaida)
E' Gianduia torinese
Meneghino milanese.
Vien da Bergamo Arlecchino
Stenterello è fiorentino.
Veneziano è Panatalone,
con l'allegra Colombina.
Di Bologna Balanzone,
con il furbo Fagiolino.
Vien da Roma Rugantino:
Pur romano è Meo Patacca.
Siciliano Peppenappa,
di Verona Fracanappa
e Pulcinella napoletano.
Lieti e concordi si dan la mano;
vengon da luoghi tanto lontani,
ma son fratelli, sono italiani.
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Il re pazzo
Travestito da maiale
Si presenta il carnevale
Una corona sulla testa
Un'espressione molesta
Scanzonata e irriverente
Fastidiosa, divertente
La pancia grande e tonda
Esce fuori dalla sponda
Piega il carro malandato
Qualche asse si è schiodato
Ma nulla ferma la festa
Delle figure di cartapesta
La musica dagli altoparlanti
Coriandoli e stelle filanti
Grida, risate, urli e lazzi
Questa è la festa dei pazzi
In particolare di quella follia
Che si chiama voglia d'allegria
Capace di cancellare la crisi
Con la forza dei sorrisi
Dipingendosi la faccia
E dire qualche parolaccia
Alla sorte sempre avversa
Che sempre imperversa
La sfida una nuova canzone
Che non cambia la situazione
Ma ricorda a chi ha il potere
Che si può sempre cadere
Basta un colpo di vento
Se il popolo è scontento
Lo dimostra il carnevale
Col suo aspetto bestiale
Sul carro il Re barcolla
Ride sguaiata la folla
E per farla divertire
Quasi rischia di morire
Ed in fine si lascia cadere
Sbattendo forte il sedere
Ma si rialza e fa un inchino
E beve dalla bottiglia di vino
Sorridono felici i bambini
Mentre mangiano zuccherini
Nella sfilata regna il colore
Dei dolci si sente l'odore
Appare felice la comunità
Mascherata, ingorda d'ilarità
Ma giunti alla conclusione
Il Re pazzo trova la ragione
Critica i difetti della società
Perché il carnevale è verità
E sotto la maschera apparirà
Il volto sincero della libertà
E dietro ad ogni scherzo e vizio
Si presenta sferzante il giudizio
Perché tutta questa baldoria
Non è priva di memoria
Ed è una satira che vede
E riconosce la malafede
Attenzione all'ammonimento
Nascosto dietro al divertimento
Scoppia la pancia del carnevale
Una risata enorme, vibra e sale
E spinge miriadi di caramelle
A prendere il posto delle stelle
Il mondo è di nuovo capovolto
E' bastata una maschera sul volto
Evviva allora il vecchio carnevale
Se riesce a non essere banale.
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La trombettina azzurra
C'era una volta un bambino che non aveva per carnevale
nemmeno una trombetta di cartapesta da suonare.
La', tra la folla che schiamazzava, che rideva,
c'era un bambino che in silenzio piangeva.
Passo' un'arlecchino: gli regalo' il cappello,
Pulcinella il bastone,
Pantalone il mantello,
e un'azzurra fatina la sua trombettina.........
La', nella grande piazza una maschera sola c'era:
suonava una trombettina azzurra sul far della sera.
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Le maschere di Carnevale (di Attilio Cassinelli)
Arlecchino ti presento
tutte toppe ma contento.
e Brighella suo compare,
cosa pensa di brigare?
Scaramuccia faccia buffa
sempre pronto a far baruffa.
E Tartaglia che non sbaglia,
quando canta non tartaglia.
Meneghino che, pian piano,
va a passeggio per Milano
e Pierrot vediamo qui
che è venuto da Paris.
Vuoi sapere chi è costui?
Peppe Nappa, proprio lui
Pulcinella saggio e arguto
che da Napoli è venuto.
E Gianduia piemontese
che di tutti è il più cortese.
Da Bologna ecco che avanza
Balanzon dalla gran panza.
Tutti insieme fan colazione
e chi paga è Pantalone!
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Viva i coriandoli di Carnevale
Viva i coriandoli di Carnevale,
bombe di carta che non fan male!
Van per le strade in gaia compagnia
i guerrieri dell'allegria:
si sparano in faccia risate
scacciapensieri,
si fanno prigionieri
con le stelle filanti colorate.
Non servono infermieri
perchè i feriti guariscono
con una caramella.
Guida l'assalto, a passo di tarantella,
il generale in capo Pulcinella.
Cessata la battaglia, tutti a nanna.
Sul guanciale
spicca come una medaglia
un coriandolo di Carnevale.
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Le maschere di carnevale tradizionali
Arlecchino
Bergamo
Nato nella Bergamo bassa, Arlecchino lo ritroviamo sempre nelle vesti del servo umile e del facchino. Le sue origini sono remote, da ricercare nelle leggende medioevali. Il suo costume famosissimo e tradizionale è composto da una maschera nera e fiammante e un vestito fatto di losanghe lucenti multicolori.
E' il fortunato emblema della comicità ed è un servo-facchino scaltro che cerca di spillare quattrini a padroni avari e stupidi. Ha una notevole ricchezza espressiva, è afflitto da una fame cronica ed è amorale.
Balanzone
Bologna
Il dottor Balanzone rappresenta il personaggio comico di un "dottore" soltanto di nome, a volte medico, a volte notaio. E' una maschera presuntuosa, superba, amante di sproloqui, lunghe "prediche" con citazioni in latino quasi sempre fuori posto: quando comincia a parlare è quasi impossibile interromperlo e quanto viene chiamato in causa sfoggia le sue dotte "cognizioni" di latino. Una delle caratteristiche del dottore è la sua obesità.
Brighella
Bergamo
E' la maschera di un servo astuto, ingegnoso, che sa aiutare ma anche ingannare il padrone. Non ha scrupoli e si adatta a qualsiasi lavoro: può essere oste, soldato, primo servitore o ladro patentato, è il servo furbo della commedia dell'arte. Questa maschera è nata nella Bergamo alta e si distingue dal servo sciocco e cialtrone della Bergamo bassa. La sua parlata è in dialetto bergamasco ma con singolari accentazioni che rendono spiritoso il suo modo di parlare. E' una maschera molto antica e il suo nome appare per la prima volta in un testamento burlesco nel 1603 e appare addirittura sulle scene francesi intorno alla metà del 1600. Il suo costume tradizionale si compone di una livrea bianca, completata da giubba e braghe a strisce verdi.
Il suo nome deriva da "briga" e infatti impersona il servo tuttofare intrigante.
Colombina
Venezia
E' l'unica maschera femminile. E' vivace, graziosa, bugiarda e parla veneziano. E' molto affezionata alla sua signora, altrettanto giovane e graziosa, e pur di renderla felice è disposta a combinare imbrogli su imbrogli. Colombina schiaffeggia senza misericordia chi osa importunarla mancandole di rispetto. Anche Colombina è una maschera molto antica, la sua figura era già menzionata nel 1530 nei testi degli Accademici Intronati di Siena.
Gianduia
Torino
Si muove con eleganza, agitando il suo caratteristico codino rivolto all'insù. Ama lo scherzo ed i piaceri della vita. Gianduia ha finezza di cervello e lingua arguta che adopera per mettere in ridicolo i suoi avversari. Gianduia é un tipo pacifico e non cerca la rissa, né ama complicarsi la vita, ma non rinuncia al suo senso di schiettezza che fanno parte del suo carattere piemontese, gentile ma sincero. La sua generosità d'animo e l'innato senso di giustizia lo hanno sempre spinto dalla parte dei deboli e degli oppressi.
E' in onore della maschera che prende il nome di Gianduiotto, il rinomato cioccolatino torinese di cioccolato e nocciole. La loro forma, a barchetta rovesciata, si rifà al copricapo di Gianduja.
Meneghino
Milano
Impersona un servitore rozzo ma di buon senso che, desideroso di mantenere la sua libertà, non fugge quando deve schierarsi al fianco del suo popolo. E' abile nel deridere i difetti degli aristocratici. Meneghino é la tipica maschera dei milanesi e come loro è generoso, sbrigativo e non sa mai stare senza far nulla.
Ama la buona tavola. Vestito di una lunga giacca marrone, calzoni corti e calze a righe rosse e bianche, cappello a forma di tricorno sopra una parrucca con un codino stretto da un nastro, ancora oggi, assieme alla moglie Checca, trionfa nei carnevali milanesi.
Pantalone
Venezia
Pantalone è un vecchio mercante, spesso ricco e stimato anche dalla nobiltà, mentre altre volte è un vecchio mercante in rovina. E' un vecchio del tutto particolare perchè nonostante l'età è capace di fare le sue "avances" amorose che non si concludono mai in modo positivo.
E' un uomo di grande vitalità negli affari, al punto di sacrificare la felicità dei figli e l'armonia familiare pur di combinare qualche matrimonio vantaggioso.
Peppe Nappa
Sicilia
Peppe Nappa presenta più di un'affinità con il Pierrot francese, sia per il costume che indossa che per alcuni aspetti caratteriali. Beppe Nappa rappresenta un siciliano fannullone, intorpidito da un sonno perenne che lo costringe a sbadigliare continuamente. E' il pigro servitore di un padrone che può essere un commerciante, un innamorato, o un vecchio barone. In realtà non svolge il suo lavoro in modo efficiente, anzi passa dal sonno,alla ricerca di cibo,aiutato da un fiuto infallibile, per tornare poi al suo mondo di sogni.
Pulcinella
Napoli
Pulcinella è un servitore sciocco e chiacchierone. Assume personalità contraddittorie: può essere infatti tonto o astuto, coraggioso o vigliacco. Pulcinella è la personificazione del dolce far niente. Ha una gestualità vivacissima, tipica dei napoletani. La maschera ha il volto bianco e nero e indossa un largo camice bianco. Il nome Pulcinella deriva probabilmente dal napoletano "pollicino", che significa pulcino, a sottolineare il timbro buffonesco come di un roco chiocciare. Pulcinella è dotato di una insaziabile voracità. Diceva che la frittata di maccheroni è molto buona ma che lui non la poteva mai mangiare perché la pasta non gli avanzava mai. E' estremamente impigliato nei più minuti problemi del cibo, sempre alle prese con l'ostinato problema della sopravvivenza, delle necessità elementari che aguzzano il suo ingegno e la sua fantasia, alla ricerca di espedienti per sfuggire alla sopraffazione dei potenti, all'ingordigia dei ricchi. E' goffo e sfrontato, ma è anche universale, comico e drammatico, come ben sapeva Eduardo De Filippo e anche tutti gli altri attori che hanno indossato casacca e maschera sul palcoscenico.
Nel Settecento è stato trasformato in burattino e nel 1600 Pulcinella è stato "adottato" dagli inglesi con il nome di Punch.
Rugantino
Roma
Rugantino è una maschera che impersona il popolano romano, sconclusionato e attaccabrighe. Rappresentò il tipo di popolano violento ma generoso, vero e proprio antenato del moderno bullo di periferia sempre pronto a sbeffeggiare il potere costituito e a difendere coloro che la miseria finisce col porre fuori legge. Il suo nome deriva dal verbo dialettale romanesco "rugà", che significa comportarsi con arroganza.
Il costume tradizionale di Rugantino comprende un alto cappello da gendarme, il frac rosso, il panciotto, i calzoni rossi, ed è completato da calze bianche a strisce orizzontali. A parte le calze, tutti gli altri indumenti sono gli stessi che fanno parte della divisa dei soldati del Bargello romano, e qui prende l'ipotesi, quasi una certezza, che la maschera rappresenti la caricatura dei soldati. Il suo carattere è sostanzialmente quello di un attaccabrighe vanaglorioso, ma fondamentalmente è pavido, e non è privo anche di una certa bonomia, anche se è ben nascosta. Rugantino è fanfarone e contaballe e rischia spesso di pagare di persona. E' disposto a prenderne fino a restare tramortito pur di avere l'ultima parola.
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Filastrocca della tarantella di Carnevale
C'era una volta il signor Arlecchino
che a tutti quanti faceva l'inchino
e se nessuno gli offriva il caffé
lui si girava e faceva pee pee.
E Pulcinella, che è un gran imbroglione,
si divertiva a fare il burlone;
scherzava sempre e faceva arrabbiare
chi non voleva per niente giocare.
Ecco con noi il signor Balanzone
che da tutti quanti pretende attenzione,
e se nessuno vuole ascoltare
resti con noi e si metta a cantare.
Ma la più bella e anche carina
fra tutti quanti è Colombina,
si veste bene ed elegante,
usa un profumo troppo piccante.
Ma che cos'è, cosa non è,
è Carnevale
trallallero trallallà
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Uno strano pagliaccio
Nel circo c’è un pagliaccio,
mangia fuoco, sputa ghiaccio,
dice “corro”, non si muove,
scrive cinque, pensa al nove.
Ha piedini da lattante,
porta scarpe da gigante.
Ride, salta come un matto,
non ha nulla dentro al piatto:
vuol mangiare, lui lo sa,
sol che il cibo non ce l’ha.

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STORIA DEL CARNEVALE
Carnevale è un periodo difficile da interpretare, di certo è un periodo magico di baldoria, durante il quale ci si dimentica dei problemi che la vita di ogni giorno ci propone... E' un intervallo che nel calendario cristiano si colloca tra l'Epifania e la Quaresima.
Riguardo al significato della parola l'ipotesi più attendibile ricollega carnevale al latino "carnem" levare", cioè, alla prescrizione ecclesiastica dell'astensione dal consumo della carne, paradossalmente quindi, trarrebbe il nome dal suo opposto già che il periodo di carnevale si caratterizza proprio dal godimento accentuato o addirittura sregolato dei beni materiali come cibi, bevande, piaceri sessuali, almeno nelle sue origini e radici storiche. Le origini sembrano collocarsi lontane nel tempo: gli studiosi all'unanimità, fanno risalire la nascita del carnevale ai Saturnali latini. In quei giorni i romani nel celebrare l'anniversario della costruzione del Tempio dedicato al dio Saturno, si riversavano nelle strade cantando ed osannando il padre degli Dei. Durante quei festeggiamenti veniva praticato il capovolgimento dei rapporti gerarchici ed in genere delle norme costituite della società, i plebei potevano confondersi con i nobili e viceversa grazie ad un travestimento.
Più tardi venne introdotto l'uso delle maschere, preso in prestito dai Baccanali, festeggiamenti in onore di Bacco. Presumibilmente con lo scopo di non essere riconosciuti durante le pratiche licenziose festaiole, di cui i latini erano maestri. Il Cristianesimo fece ordine nel complicato panorama delle festività romane e cercò di moderare quelle più smodate e trasgressive. Fu così che i Saturnali divennero carnevale. Nel Medioevo, subì una trasformazione per effetto probabilmente della tradizione pietistica e della diffusa pratica mistica. La Manifestazione divenne fondamentalmente un rito di purificazione come è provato dalla scena culminante della festa che consiste nel funerale di Re carnevale. Questo senza però perdere il momento trasgressivo di abbandono ai piaceri materiali come viene rappresentato perfettamente dai versi di Lorenzo il Magnifico "chi vuol esser lieto sia di doman non v'è certezza...." tratti dai "CANTI CARNASCIALESCHI".Oggi dopo alterne vicende di gloria e decadenza, le manifestazioni carnevalesche hanno ripreso con forte vigore. Per un certo aspetto, ed in molti casi, esse sono il frutto di un sincero recupero di tradizioni popolari, da lungo tempo dimenticate, spesso volutamente dimenticate, come una operazione di rimozione da un senso di colpa collettivo per essere esse stesse fortemente paganeggianti e quindi quasi mai condivise dalla autorità religiosa.
Il carnevale è una festa le cui origini sono antichissime. Ai nostri giorni è l'allegra festa che si celebra, nella tradizione cattolica, prima dell'inizio della quaresima ma le prime manifestazioni che ci ricordano il carnevale nel mondo risalgono a 4000 anni fa. Gli Egizi, fin dai tempi delle dinastie faraoniche, furono i primi ad ufficializzare una tradizione carnevalesca, con feste, riti e pubbliche manifestazioni in onore della dea Iside, che presiedeva alla fertilità dei campi e simboleggiava il perpetuo rinnovarsi della vita.
Il carnevale greco veniva celebrato, invece, in varie riprese, tra l'inverno e la primavera, con riti e sagre in onore di Bacco, dio del vino e della vita. Le "Grandi dionisiache" dal tono particolarmente orgiastico, si tenevano tra il 15 marzo ed il 15 aprile, mese di Elafebolione, in Atene, e segnava il punto culminante del lungo periodo carnevalesco.
I "Saturnali" furono, per i Romani, la prima espressione del carnevale e gradualmente, perdendo l'iniziale significato rituale, assunsero la chiara impostazione delle feste popolari, i cui relitti sopravvivono nelle tradizioni di varie zone della nostra penisola, soprattutto nell'Italia del Sud e nelle Isole. Le feste in onore di Saturno, dio dell'età dell'oro, iniziavano il 17 dicembre e si prolungavano dapprima per tre giorni e poi per un periodo più che raddoppiato corrispondente all'epoca dell'annuale ciclo delle nostre feste natalizie e per il loro contenuto al nostro carnevale. Caratteristica preminente dei "Saturnali" era la sospensione delle leggi e delle norme che regolavano allora i rapporti umani e sociali. Donde l'erompere della gioia quasi vendicativa della plebe e degli schiavi e la condiscendenza del patriziato, che si concedevano un periodo di frenetiche vacanze di costumi e di lascività di ogni genere. Erano giorni di esplosione di rabbia e di frenesia incontrollata, di un'esuberanza festaiola che spesso degenerava in atti di intemperanza e di dissolutezza.
La personificazione del carnevale in un essere umano o in un fantoccio, risale, invece, al Medioevo. Ne furono responsabili i popoli barbari che, calando nei paesi mediterranei, determinarono una sovrapposizione, o meglio una simbiosi, di usi e di costumi, assorbiti quindi dalla tradizione locale, che ne ha tramandati alcuni fino ai giorni nostri, mentre altri si sono fatalmente perduti durante il lungo e agitato andare del tempo.
La chiesa cattolica e le autorità ecclesiastiche, pur tollerando le manifestazioni carnevalesche come motivo di svago e di spensieratezza, di cui la gente, credente o non, teneva in debito conto, considerava e considera il carnevale come momento essenziale di riflessione e di riconciliazione con Dio. Si celebravano, come tuttora avviene, le Sante Quarantore, (o carnevale sacro), che si concludevano con qualche ora di anticipo la sera dell'ultima domenica di carnevale. Il carnevale ha termine il giorno del mercoledì delle Ceneri, ovvero 40 giorni prima di Pasqua, quando, per la chiesa cattolica ha inizio la Quaresima.
Carnevale ambrosiano
Dove si osserva il rito ambrosiano, ovvero nella maggior parte delle chiese dell'arcidiocesi di Milano e in alcune delle diocesi vicine, la Quaresima inizia con la prima domenica di Quaresima; l'ultimo giorno di carnevale è il sabato, 4 giorni dopo rispetto al martedì in cui termina dove si osserva il rito romano.
La tradizione vuole che il vescovo sant'Ambrogio fosse impegnato in un pellegrinaggio e avesse annunciato il proprio ritorno per carnevale, per celebrare i primi riti della Quaresima in città. La popolazione di Milano lo aspettò prolungando il carnevale sino al suo arrivo, posticipando il rito delle Ceneri che nell'arcidiocesi milanese si svolge la prima domenica di Quaresima.
In realtà la differenza è dovuta al fatto che anticamente la Quaresima iniziava dappertutto di domenica, i giorni dal mercoledì delle Ceneri alla domenica successiva furono introdotti nel rito romano per portare a quaranta i giorni di digiuno effettivo, tenendo conto che le domeniche non erano mai stati giorni di digiuno.Questo carnevale, presente con diverse tradizioni anche in altre parti dell'Italia, prende il nome di carnevalone.
La rappresentazione del carnevale
Il "Processo del Carnevale"è tra i festeggiamenti carnevaleschi più diffusi, infatti lo ritroviamo in molte regioni italiane e sopravvive anche nella tradizione popolare odierna. Dopo il testamento del Carnevale, al quale si addossano tutti i mali del vecchio ciclo annuale, di solito si usa metterlo a morte. L'uccisione può avvenire per per impiccagione o decapitazione ed è il momento culminante del dramma e dei festeggiamenti, ma la forma più usuale è quella del fuoco, ovvero la messa al rogo del fantoccio di Carnevale che troviamo in tantissime località.
Carnevali famosi in Italia
In Italia, un paese di grande tradizione carnevalesca, ci sono molte manifestazioni che richiamano folle di turisti e di appassionati, ma nei secoli passati il Carnevale più spettacolare si festeggiava nella capitale.
Il Carnevale romano era incoraggiato dagli stessi Papi, che avevano ereditato dai pagani la saggezza di convogliare in una forma pacifica gli umori di rivolta e le manifestazioni di malcontento dei loro sudditi-fedeli. I festeggiamenti del Carnevale di Roma culminavano nella cosiddetta "corsa dei bárberi", e cioè dei cavalli berberi, che aveva tanto colpito Goethe da ispirargli una magistrale descrizione nel suo "Viaggio in Italia".
Esistono diversi tipi di manifestazioni di Carnevale che hanno raggiunto una certa notorietà anche al di fuori del confine regionale e nazionale, in genere per qualche caratteristica che lo contraddistingue, tipo il Carnevale di Ivrea con la famosa e originalissima battaglia delle arance.
Insomma oggi le cose sono molto cambiate e il Carnevale si è legato spesso con tradizioni locali, ma conservando il carattere principale della festa un po' folle, in cui grazie ad una maschera sul volto si può fare più o meno tutto, trasgredendo alle normali regole che vigono durante il resto dell'anno.
Il Carnevale di Venezia
A Venezia il Carnevale è una delle feste tradizionali più belle, ed è considerato uno dei modelli europei di Carnevale cittadino, era celebre e rinomato in tutta Europa già nel Settecento.
Ci sono gli spettacoli di strada, le famose feste in costume e le belle maschere veneziane perfettamente anonime. Questo, un tempo, offriva una libertà di movimento di cui hanno goduto per secoli amanti e anche ladri, durante il periodo di sfrenatezze, per unirsi alle follie del Carnevale veneziano.
Caduto in disuso per un certo periodo, il Carnevale veneziano è stato riscoperto negli anni ottanta, con un notevole richiamo turistico e grande partecipazione e allegria degli stessi Veneziani.
Al culmine delle manifestazioni una grande folla di persone riempie la grande piazza di fronte alla Basilica di San Marco e la piazzetta di fronte alla Giudecca.
Il Carnevale di Viareggio
Il Carnevale di Viareggio è un appuntamento tradizionale che si tramanda da molto tempo e che ben presto uscì dai confini della Versilia. E' nato ufficialmente nel febbraio del 1873, pare intorno ai tavolini di un conosciuto caffè cittadino, il "Caffè del Casinò", dove tra i giovani bene di Viareggio nacque l'idea di una sfilata di carrozze in modo da festeggiare il Carnevale all'aperto, in piazza e tra la gente.
Durante la prima guerra mondiale il Carnevale di Viareggio subì un arresto, ma nel 1921 rifiorì divenendo ancora più splendido e grandioso.
La cartapesta, per realizzare i carri maestosi e molto leggeri, venne introdotta qualche tempo dopo, nel 1925, per iniziativa e merito di alcuni costruttori locali.
Burlamacco e Ondina
Nel lontano 1930, un pittore di nome Uberto Bonetti realizzò dei manifesti ufficiali immortalando e dipingendo tutta la magia del Carnevale di Viareggio e creando anche una maschera chiamata "Burlamacco". L'anno dopo, nel 1931, Burlamacco ritatto sullo sfondo dei moli viareggini protesi verso il mare, era già in compagnia di "Ondina".
I carri a tema
Ogni anno il Carnevale di Viareggio sceglie un tema espresso con i carri allegorici. I carri sono monumentali, per lo più sormontati da enormi pupazzi di cartapesta che rappresentano uomini politici illustri, personaggi dello sport e dello spettacolo, o eventi della politica e temi sociali di tutto il mondo. Sono i veri protagonisti del Carnevale e infatti questa festa si distingue dalle altre per il suo carattere polemico che ispira tutti i carri, con l'invito per tutti alla riflessione.
Viste le dimensioni e la quantità di lavoro necessario per i preparativi del Carnevale viareggino, qualche anno fa è stata creata la "Cittadella del Carnevale", un grande complesso polifunzionale adibito a moderni laboratori per la costruzioni dei carri di cartapesta, che ospita anche la Scuola di Cartapesta.
Il Carnevale di Acireale
Acireale è un prezioso gioiello barocco della Sicilia Orientale, in provincia di Catania, che si colora di festa per il Carnevale più famoso del Sud Itala. Con l'ironia dei carri allegorici e di quelli infiorati e con il ricco banchetto che precede il Martedì Grasso. La sfilata dei carri unisce nobiltà, religione e cultura in un tripudio di maschere. Il Carnevale di Acireale è gemellato con quello di Viareggio ed è inserito nella omonima lotteria nazionale. Le testimonianze del passato di partecipazione popolare al più famoso Carnevale siciliano sono moltissime, come ad esempio il bando della "Corte Criminale di Jaci", che nel Seicento vietava la battaglia tra i "carusi", con i lanci di agrumi, come si fa in modo simile al Carnevale di Ivrea, in Piemonte.
La satira e la derisione dei potenti assunse le forme di "Abbatazzu", una maschera irridente a nobili ed ecclesiastici, ma autorizzato dalla Chiesa. In seguito i "baruni" di Jaci diventarono il bersaglio del feroce e ironico sarcasmo popolare espresso con sfavillanti maschere e con i "Manti", ovvero costumi ricchi di fronzoli che garantivano il perfetto anonimato di chi li indossava.
La sfilata delle carrozze dei nobili, chiamata "Cassariata", era l'occasione per lanciare alla folla confetti multicolori e alla fine dell'Ottocento questa usanza lo fa diventare il Carnevale più bello della Sicilia, dove nascono i primi carri allegorici di cartapesta.
Da allora Acireale ha saputo mantenere e valorizzare questa tradizione, grazie a maestranze che per tutto l'anno lavorano per preparare opere di pregevole spettacolarità. I carri sono multicolori e infiorati e assumono varie forme e dimensioni, ci sono infatti quelli in miniatura, con soggetti dedicati ai bambini e i caratteristici carri allegorici, sempre più sofisticati, colorati e mastodontici. Anno dopo anno la gara è una sfida tra decine di famiglie acesi, che danno anima e corpo a favole dolci e romantiche, a satire pungenti contro un costume, un personaggio, una moda oppure anche un modo di dire. Si esprime in un'estetica armonica e sfavillante il giudizio popolare sui protagonisti della vita nazionale, che diventano fantocci da irridere e da screditare scherzosamente nel tripudio di migliaia di partecipanti.
L'arte di cartapesta trasforma lo scenario della Basilica di San Sebastiano, della piazza del Duomo e della Basilica dei Santi Pietro e Paolo, in una scenografia magica, che sovrasta il reale e il quotidiano. I carri infiorati sono decorati con oltre quarantamila garofani e sono una emozionante vista per gli spettatori che giungono ad Acireale da tutta la Sicilia ma anche da molte località fuori regione. Durante l'ultimo fine settimana che precede il Martedì Grasso gli spettatori culminano in una folla di quattrocento mila persone. Intorno alla festa carnevalesca è tutto un fiorire di giochi, spettacoli di piazza, mostre, concorsi e serate danzanti, fino al gran finale del Carnevale, rappresentato dal Martedì Grasso e dal tradizionale rogo del Re del Carnevale.
Il Carnevale di Rio de Janeiro
Il Carnevale più famoso del mondo è rappresentato senza dubbio quello di Rio de Janeiro, una grande città del Brasile sud orientale, fra le maggiori del continente americano e del mondo. Il Carnevale di Rio è una della manifestazioni popolari più famose e variopinte del pianeta, che nella città di Rio de Janeiro ha l'espressione più clamorosa. Si tratta di un vero e proprio rituale di liberazione per la popolazione di colore, costretta a trascorrere un'esistenza spesso assai misera, e sono molte le persone impegnate tutto l'anno per mettere a punto i suoi preparativi.
Le danze del Carnevale, come il "samba" e il "frevo", riprendono i ritmi delle musiche dei "candombles" e di altri riti. Il samba è uno stile musicale e anche una danza di origine afro-brasiliana, il nome deriva probabilmente dal "semba" angolano, mentre il ritmo discende dal "maxise" che si è diffuso alla fine dell'Ottocento, con influenze della musica portoghese e spagnola. Questo tipo di ritmo ha dato vita ad una tradizione folcloristica unica, nata dal sottoproletariato di Rio de Janeiro, è il simbolo musicale nazionale, identificata sia come musica per canto che per percussioni. La forma più nota di samba è il samba carioca, lo stile che domina il Carnevale di Rio. Le animate sfilate, i carri colorati, le attraenti ballerine delle scuole di samba e i percussionisti, fanno confluire in questo periodo dell'anno numerosissimi turisti da ogni parte del mondo.
Fonte:
medioevo.com
wikipedia.org
carnevalemaschere.com
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